La vita di David Keith Lynch comincia nel lontano 1946 a Missoula, una città del Montana nella quale il regista, secondo le sue stesse parole, si era trovato “giusto per nascere”. Figlio di un ricercatore del Ministero dell’Agricoltura e di una casalinga, passa l’infanzia in continuo movimento tra una città e l’altra, costretto a repentini traslochi per via del lavoro del padre. Dopo aver passato diversi anni fra i ranch e gli spazi immensi del Montana, la famiglia si trasferisce in Virginia dove il giovane Lynch, ormai quattordicenne e appassionato di disegno, incontra il pittore americano Bushnell Keeler; l’artista era il padre di Toby, un suo amico che, stando alla parole del maestro, gli cambiò la vita. Keeler Sr. regala al ragazzo un libro destinato a diventare la sua bibbia: Lo spirito dell’arte di Robert Henri, in cui sono indicate le regole della vita artistica. Il suo percorso scolastico è riassunto nelle parole di Peggy Reavey (nome d’arte di Peggy Lentz), la prima moglie: “Probabilmente tutto quello che gli veniva insegnato lo annoiava a morte; era un pessimo studente liceale. Tuttavia, godeva di grande popolarità. Era di bell’aspetto e faceva parte della confraternita. A modo suo aveva molto fascino. Non stava affatto ai margini; non è mai stato quello il suo ruolo”.
La storia con Peggy è stata, suo malgrado, la scintilla che ha scatenato l’incendio nella mente di Lynch: un incendio che si chiama Eraserhead.
Eraserhead – La mente che cancella (1977)
Nel 1965 infatti, dopo un anno alla Boston Museum School e dopo un fallimentare viaggio in Europa assieme all’amico scenografo Jack Fisk con la speranza di studiare arte con il pittore Oskar Kokoschka (viaggio che sarebbe dovuto durare tre anni, non 15 giorni), David Lynch è costretto a tornare in America. Non più sostenuto economicamente dalla famiglia, il regista si arrangia con lavori di fortuna; sarà Bushnell Keeler ad indirizzarlo alla Pennsylvania Academy of Fine Arts di Philadelphia e qui conoscerà la sua futura prima moglie.
È il 1967, David e Peggy sono appena ventenni in condizioni finanziarie precarie e prossimi ad accogliere un terzo membro nella loro famiglia (situazione analoga a quella dei protagonisti di Eraserhead). Peggy si sposa incinta e nell’aprile del ’68 nasce Jennifer Chambers Lynch, che diventerà a sua volta una regista e scriverà, giovanissima, il libro Il diario segreto di Laura Palmer. Lynch è un angosciato studente-padre di ventitré anni, costretto ad accantonare una parte dell’ambizione artistica in favore di esigenze più pratiche e materiali come la famiglia. Appartiene a questo periodo uno dei più inquietanti e celebrati dipinti del cineasta che, secondo Peggy, rappresentò la svolta della carriera: The bride (La sposa) è un angosciante rappresentazione, a metà fra Schiele e Francis Bacon, di una sposa che compie un aborto su sé stessa. Il modo di dipingere dell’artista di Missoula cambia radicalmente, le forti pressioni economiche e sociali, combinate con il fatto che vivesse in uno dei quartieri più malfamati di Philadelphia, contribuirono a portare il maestro verso un mondo più oscuro, dove l’idillio dell’adolescenza termina e comincia la difficile e tortuosa età adulta.
Eraserhead è ancora oggi il più ermetico, enigmatico ed indecifrabile film di David Lynch. Dopo 40 anni le molteplici chiavi di lettura possono essere ricercate nell’esperienza del giovane regista: angosciato, pieno di pressioni (sia economiche che familiari), spaventato dal mondo che lo circonda e dal mondo che verrà. La lavorazione durò la bellezza di cinque anni per colpa di alcuni problemi finanziari; Lynch infatti cercò finanziamenti attraverso tutti i canali possibili. I soldi arriveranno in parte dall’American Film Institute e in parte dal suo sodale amico, Jack Nance (protagonista del film), ma anche dalla sua famiglia e da quella di Peggy (senza considerare i lavori saltuari come la consegna dei giornali). Eraserhead tuttavia avrà una grande fortuna nei circoli underground e permetterà al cineasta di ergersi come autore culto in quegli ambienti.
La pellicola è qualcosa di mai visto prima: i dialoghi sono strani, ridotti all’osso, la trama non è lineare, le allegorie non sembrano rimandare a nulla di “concreto” (lo stesso Lynch ha dichiarato di aver capito i motivi che lo avevano spinto a girare Eraserhead diversi anni dopo, rifiutandosi di dare linee interpretative). Questo brillante esordio, forse il migliore di sempre assieme a Quarto Potere e I 400 Colpi, ci mostra i temi centrali della prima fase lynchiana: le deformità, il dolore, i grandi edifici industriali e “la creatura”. Il feto orrendo, sofferente ed incolpevole, venuto al mondo in maniera inspiegabile e per motivi inspiegabili può essere idealmente il “padre” del mostruoso John Merrick di The Elephant Man. Il cinema diventa pura e semplice esperienza, diventa un quadro in movimento, diventa atmosfera. Una delle ispirazioni del film è Il Processo, celebre romanzo Franz Kafka di cui Lynch non ha mai nascosto di essere perdutamente innamorato. Lo stesso regista, a proposito del rapporto tra il protagonista de Il Processo Josef K. e quello di Eraserhead, ha detto: “Henry Spencer è assolutamente persuaso che stia accadendo qualcosa, ma non ha una piena comprensione degli eventi. Osserva le cose, poiché vuole farsene un’idea”; stesso principio che, peraltro, sarà alla base di Velluto Blu. Lynch comincia a prendere dimestichezza sul set, il suo immaginario oscuro colpisce gli spettatori. In particolare uno, estremamente potente da poter permettere al filmmaker di tornare sul set in condizioni molto meno precarie dell’esordio: Mel Brooks e la Brooksfilm.
The Elephant Man (1980)
Per amor di cronaca fu Stuart Cornfeld, giovane produttore esecutivo al servizio di Brooks, a convincere il comico. Cornfeld aveva visto e si era innamorato di Eraserhead, ragion per cui quando si trovò in mano il soggetto di The Elephant Man, contattò immediatamente David Lynch per proporgli il lavoro. Al giovane regista bastò sentire il nome del titolo per decidere di tuffarsi nel nuovo progetto, consapevole, oltretutto, che avrebbe lavorato insieme ad una major con grande libertà, un budget elevato, i migliori attori britannici in circolazione e delle condizioni di lavoro molto meno disastrose rispetto al lungometraggio precedente. Con questi presupposti il talento enorme del genio di Missoula viene esaltato in ogni fotogramma della pellicola, candidata l’anno successivo a otto premi Oscar tra cui miglior regista, miglior film e miglior sceneggiatura non originale. The Elephant Man è, appunto, la prosecuzione naturale di Eraserhead: la grande differenza sta nel fatto che Lynch adattò, insieme a Christopher De Vore e Eric Bergen, un libro di Ashley Montagu (The Elephant Man: A Study in Human Dignity). Il materiale preesistente e la complicità di due sceneggiatori professionisti lo aiutarono a costruire un intreccio più solido, concreto e soprattutto più facile da comprendere per lo spettatore medio, rimanendo comunque fedele alle proprie idee e ai propri interessi. Il film infatti, ambientato nella Londra vittoriana, racconta la storia vera di John Merrick, un uomo deforme e dal volto sfigurato che si guadagna da vivere come freak. Costretto a girare con un sacco in testa per non spaventare la gente comune, egli verrà “soccorso” da un dottore di nome Frederick Treves che, nel corso della pellicola, lo aiuterà a far emergere la sua parte sensibile e umana.
Il pilastro del film è analogo a quello di Eraserhead: anche qui viene riproposto il tema della “creatura”. I primi due protagonisti di Lynch sono innocenti esseri con sembianze “mostruose”, che in situazioni ordinarie sarebbero visti in modo totalmente diverso: i bambini appena nati, per antonomasia, sono creature dolcissime e in The Elephant Man è impossibile non provare un affetto struggente verso Merrick, anche grazie alla geniale interpretazione di John Hurt. Il secondo film del cineasta è propriamente una storia fiabesca: una bestia che cerca di dimostrare il suo lato umano. The Elephant Man è un romanzo di formazione, una storia di riscatto dalla vita logora alla quale si devono sottomettere questi particolari individui, basti pensare alla più famosa battuta del film urlata da uno straziato John Merrick: “Non sono un animale! Sono un umano! Sono un uomo!”
Dopo le otto nomination agli Oscar e il grande successo al botteghino, complice anche la crescente fama del regista e l’ambizione folle di uno dei più grandi produttori di sempre, ad attendere David Lynch ci sarà la più impegnativa, sanguinosa e pericolosa sfida della sua carriera.
Il periodo De Laurentiis: Dune (1984) e Velluto Blu (1986)
Paradossalmente, nonostante i milioni a disposizione (De Laurentiis firmò al cineasta un assegno in bianco), Dune è stato il progetto più stressante della carriera di David Lynch. Ciò è riconducibile a tre fattori: l’impossibilità di avere il controllo totale sull’opera (la famosa Director’s Cut), la pressione psicologica di avere a disposizione un budget di 40 milioni di dollari (furono costruiti ben otto teatri di posa a Città del Messico) e un romanzo (Dune di Frank Herbert) praticamente impossibile da adattare. La poca dimestichezza con il genere fantascientifico, la mole imponente di materiale e le continue intrusioni di De Laurentiis portarono Lynch sull’orlo di una crisi di nervi: il regista ebbe sì la possibilità di dare libero sfogo alla sua inventiva visiva, salvo poi vedersi continuamente “annullare” dal produttore. Scene tagliate, scene cancellate, scene ridotte e scene rimontate su ordine di De Laurentiis. Lynch dovette combattere per salvare ogni singola scena di cui era innamorato, per poi vedersi ridurre la durata del film a poco più di due ore. L’insuccesso critico e commerciale fu spaventoso e l’autore del Montana aveva bisogno di rialzarsi subito per non cadere definitivamente.
Per fortuna del produttore e del regista, il loro contratto portò alla produzione di uno dei più famosi film degli anni ’80, vero oggetto di culto da generazioni: Blue Velvet. Il buon David ritorna nel suo amato mondo indipendente, un cinema dove il budget è ridotto (5 milioni a fronte dei 40 precedenti) ma le possibilità creative sono illimitate. Lynch ha l’ultima parola su tutto, controlla tutto sin dalla fase embrionale; inoltre prosegue il sodalizio con l’attore Kyle MacLachlan e comincia quello con Laura Dern. All’inizio del film vediamo un orecchio in mezzo ad un prato e immediatamente entriamo in un nuova fase della carriera del geniale filmmaker: archiviate le devianze fisiche, l’interesse del regista si sposta verso quelle mentali.
Come in Twin Peaks, il cineasta ci presenta una normale e tranquilla provincia americana, all’interno della quale si nascondono degli efferati criminali psicopatici capitanati da un Dennis Hopper irresistibile. Ciò che comunque continua ad interessare David Lynch è ancora una volta la scoperta del mondo: Jeffrey è un alter-ego del regista, impaurito ma al contempo affascinato da ciò che lo circonda, un universo lontanissimo dal suo orizzonte di vedute. Isabella Rossellini (all’apice della carriera) è un irresistibile polo attrattivo, al contempo femme fatale dannata, perversa, deviata, più grande di Jeffrey e più esperta. Il maestro immerge un racconto crudele all’interno di un paesaggio cittadino inframezzandolo con una sorta di storia d’amore fra il personaggio della Dern e MacLachlan, che si iscrive perfettamente nel genere della commedia sentimentale. I due si frequentano ed indagano insieme, sono attratti l’uno dall’altra, sono innocenti. Tuttavia, si ritrovano invischiati loro malgrado (ancora una volta Lynch pesca a piene mani dai precetti kafkiani) in una vicenda talmente più grande di loro e talmente pericolosa da esserne inghiottiti. Conviene infatti riprendere in mano le dichiarazioni di Lynch a proposito del parallelismo tra Eraserhead e Il Processo: basta togliere “Henry Spencer” e sostituirlo con “Jeffrey Beaumont” per comprendere appieno l’evoluzione del regista rispetto al suo stesso esordio. In Blue Velvet la curiosità è legata ad un diverso immaginario, più attinente alla sfera della carnalità e dell’attrazione fisica rispetto al mondo angoscioso nel quale si trova Henry Spencer. Il mondo di Dorothy Vallens è, semplicemente, pieno di insidie e lei è una donna matura, estremamente affascinante per il giovane Jeffrey: ciò può addirittura ricordare la fascinazione di Benjamin per Mrs. Robinson ne Il Laureato, cosa che accade peraltro in altre centinaia di script cinematografici in cui un adolescente rimane affascinato da una donna più grande. L’immaginario sessuale è stato da sempre al centro dell’opera del cineasta, solo che in questo caso, per la prima volta, si fa concreto, seducente, morboso e soprattutto pericoloso: da qui in poi, tutti i rapporti sessuali e le relazioni nel cinema di Lynch ricondurranno al pericolo.