Ci sono pellicole che prendono strade strane, che si muovono nell’ombra, nel sottobosco appena percettibile ai margini del campo visivo del grande pubblico, come schiere di gente di strada, come gli sbandati, i barboni, i mezzi criminali che fanno da comparse al colossal perpetuo delle nostre vite metropolitane; quasi invisibili, eppure così tanto importanti per la buona riuscita del quadro totale, una grana sottile identificativa, che dà quel giusto colore e quello spessore fondamentale all’opera collettiva che viviamo ogni giorno. Cane Mangia Cane (Dog eat dog) é una pellicola del genere? Probabilmente no, o almeno non completamente. Ma è un pellicola che in gran parte parla di questo. Racconta storie ai margini, vite di individui che gravitano intorno alle vetrine del quotidiano, osservando ciò che tutti noi definiamo “una vita normale”, mentre le loro, di vite, certamente normali non sono.
Già perché il film di Paul Schrader (grande scrittore di capolavori come Taxi driver e Toro scatenato, giusto per citarne un paio), che quando è uscito nel 2016 è stato accolto molto freddamente e che lo stesso Schrader non considera uno dei suoi capolavori, racconta esattamente questo: vite impossibili che cercano di tornare normali, o almeno possibili, dopo l’inferno del carcere, della strada, dei brutti giri criminali che non ti togli mai veramente di dosso, perché se sei nato in un certo ambiente, è molto probabile che in quell’ambiente ci morirai.
Questa disperazione, o meglio questa disperata ascesa (che è effettivamente l’unico vero focus dello stesso Schrader, in questo film), si vede tutta, in primo luogo nella storia che ha ispirato in parte il film (il romanzo omonimo del grande “consulente” criminale di Hollywood, Edward Bunker); in secondo luogo nel linguaggio visivo usato da nostro Schrader, così carico di potenza visionaria, decisamente psichedelica in alcuni tratti – come ad esempio per star dietro alla forza di un Willem Dafoe strafatto e psicopatico, e trasmettere allo spettatore in modo ancora più incisivo il disequilibrio cosmico nel quale il suo meraviglioso e disturbante personaggio (Mad Dog) ci vuole condurre. Il livello visivo è quello in cui Schrader investe di più, in questa pellicola: sperimenta, piega, distorce, colora, come un artista farebbe con la materia, pittorica e scultorea insieme, fino a dare forme nuove, originali, spesso inquietanti, ma sempre affascinanti, un meraviglioso horror vacui brillante e caleidoscopico, alternato a smarrimenti visivi, nel mezzo di una nebbia che atterrisce e spaventa, spettatori e personaggi.
Questa sperimentazione visiva, poi, si amalgama perfettamente con l’illustrazione straniante e pop di una Cleveland medio-borghese, lanciandoci lampi di personaggi e comparse così tanto normali da sembrare quasi dei clown da feste per bambini, che si muovono fra villette tipicamente americane completamente decorate in rosa, strade e centri commerciali e vicini cordiali e commessi diligenti, e saggi pastori afroamericani con signora. Uno sfondo assolutamente definito, che stride e lotta, fotogramma dopo fotogramma, con i nostri eroi ex-galeotti, dando costantemente l’impressione di un collage, di figurine che si muovono in un ambiente cui non appartengono.
In effetti i tre protagonisti (il già citato Mad Dog, la mente Troy/Nicholas Cage e il braccio violento Diesel/Christopher Matthew Cook) è proprio questo che fanno per tutto il film: lottare, sgomitare, cercando un posto in un mondo che non li vuole più, perché marchiati, ormai, dall’esperienza in galera.
Ma attenzione: non ci troviamo davanti ad una storia falsamente moralista di poveri cristi che cercano di ingrarsi e adattarsi alla società piena di pregiudizi che, nonostante i loro sforzi per rigare dritto, non li riconosce come propri membri: questa visione sarebbe decisamente troppo facile e banale; al contrario, ci vengono mostrati tre criminali, tre “tipacci”, che continuano a destreggiarsi fra colpi più o meno fortunati, che continuano ad truffare, ricattare, rubare, perché questo è tutto ciò che sanno fare nella vita. Perché nessuno ha insegnato loro che esiste altro, che un’altra vita è possibile, come si dice. Perché quando il tuo mondo é una merda, tutto quello che hai è la merda; e proprio qui sta la potenza di questo grande affresco, questa è l’anima della grande disperazione dei suoi personaggi, che vorrebbero si conquistare un posto nel mondo dei “normali”, ma rimangono impotenti perché incapaci di capire cosa sia, realmente, questo mondo a loro precluso; e quindi continuano a rifugiarsi in squallidi night club, e negli anfratti più oscuri dell’animo umano. E anche quando cercano, con tutte le energie, di capire, di comprendere, cosa sia davvero una vita diversa da quella che hanno avuto finora, tutto quello che riescono a ottenere è un crollo nervoso, una totale e piena disperazione, dalla quale solo droga e alcool possono salvarli, per tirare avanti ancora un po’, per un’altra notte, fino a un’altra alba.
Nonostante questa siderale distanza con il nostro quotidiano, non possiamo non sentirci feriti, alla fine della storia: feriti come esseri umani, come testimoni impassibili non del mancato aiuto a questi poveri cristi , quanto piuttosto di non aver mai saputo tendere loro una mano, prima che si formasse questa loro consapevolezza. Perché in fondo, come sostiene Troy, tutti vogliono giustizia ma gli errori del passato non ti abbandoneranno mai.
Dog Eat Dog è disponibile sulla piattaforma on demand The Film Club e dal 13 luglio sarà in sala grazie a Altre Storie e Minerva Pictures.
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Nicholas Cage e Willem Dafoe sono i protagonisti di una pellicola minore ma comunque interessante, incentrata su degli uomini ai margini della società.