Nicole Kidman conciata come Bowie in Labyrinth, Elle Fanning come un alieno seducente, tre amici che gestiscono una fanzine punk nei sobborghi di Londra, creature da un altro pianeta vestite alcune come i Kraftwerk ed altre con costumi à la Björk, una storia d’amore e un coming of age dalle tinte “camp”. Tratto da un racconto omonimo di Neil Gaiman (American Gods), How to talk to girls at parties è un calderone nel quale si agitano referenze musicali al fianco di citazioni e costumi kitch.
L’opera di John Cameron Mitchell è un omaggio non tanto alla musica in sé, bensì un omaggio a ciò che la musica ha costruito. Il “modus vivendi” degli appassionati, il loro modo di vestire e di comportarsi, l’attitudine – alle volte caricaturale – dei punk verso il “sistema” e tutto ciò che con esso ha a che fare. L’andare contro tutto e tutti, rintanarsi in dei buchi a sentire gruppi con un seguito irrisorio e nonostante ciò vederli come degli dei.
John Cameron Mitchell è uno dei più importanti fautori del genere queer. Il suo nome cominciò a girare tra i cinefili sin dal suo esordio nel 2001, Hedwig – la diva con qualcosa in più, nel quale interpretava una “diva” transgender nella Germania dell’est. Sorse alla ribalta con il controverso Shortbus, cult del 2006 presentato al Festival di Cannes, nel quale erano presenti diversi attori non professionisti impegnati in scene di sesso esplicite, fra le quali un’enorme orgia bisessuale. Dopo il più commerciale Rabbit hole del 2010, torna, a sette anni di distanza, con una creatura impossibile da etichettare o qualificare.
How to talk to girls at parties ricorda Velvet goldmine, ha un rapporto di discendenza diretta con The boy who fell to Earth e in qualche modo si riallaccia anche ad Almost famous di Cameron Crowe. È un film che non sarebbe potuto esistere senza il glam rock, senza David Bowie o senza i costumi sgargianti che Peter Gabriel e i Genesis amavano esibire ai concerti. È un esaltante coming of age nel quale due giovani ribelli, l’appassionato di Punk “Enn” e l’aliena che sfida le regole della sua colonia “Zan”, si ritrovano invischiati nel loro primo amore. Uno di quegli amori fugaci, tipicamente e romanticamente adolescenziali, quelli destinati a finire, vissuti durante una vacanza estiva o una gita scolastica.
Mitchell e Gaiman sanno che la storia del cinema è piena, strapiena di film su questo argomento. Sanno ancor di più che non possono rifugiarsi nei soliti schemi ma hanno bisogno di uscirne. Insieme, allora, generano un film che ha poco da offrire a livello narrativo, scoprendo rapidamente le sue carte: questi misteriosi “alieni”, la cui origine e cultura ci è sconosciuta, torneranno presto al loro pianeta di appartenenza e la loro permanenza sulla terra durerà solo 48 ore. Tolto di mezzo l’intreccio, quindi, ci si può concentrare sull’aspetto che più interessa ai due artisti: la forma. How to talk to girls at parties è fatto di costumi e di oggetti, di strumenti musicali assurdi come l’arpa a forma di conchiglia che suonano gli alieni. È un film per certi versi di “tatto”, poiché lo spettatore si sente spinto e incuriosito a toccare con mano queste assurde creazioni. Alle forme “artistiche”aliene, poi, si contrappongono le più elementari espressioni materiali del punk: i capelli spettinati, le chitarre malandate, gli anfibi neri, le giacche di pelle e le immancabili spille. Lo scheletro del film è fatto dagli oggetti, dalla chincaglieria. A maneggiarli ci sono, fortunatamente, due schiere opposte di emarginati e ribelli: da una parte i giovani alieni desiderosi di ribellarsi ai propri padri, sovvertire ed eliminare una tradizione aliena che dura da millenni; dall’altra ci sono i punk, desiderosi di ribellarsi ai propri padri, sovvertire ed eliminare una tradizione. L’equazione pone sostanzialmente punk e alieni sullo stesso piano, nel bene e nel male.
Fra scenografie camp, chincaglierie varie e abiti Kitch, il regista di Rabbit hole reinterpreta la favola dell’amore adolescenziale seguendo il suo istinto e il suo stile, consegnandoci un futuro cult. Un film destinato a dividere, ad essere amato e odiato, ma che, in ogni caso, non fa dubitare lo spettatore del talento e dell’onestà degli artisti che lo hanno costruito. Una colonna sonora incredibile, tante gag divertenti, ottimi attori e una stella che brilla sempre di più: la giovane Elle Fanning, che dopo The Neon Demon si riconferma come un’attrice capace di sedurre in modo unico e originale; merito dei suoi graziosi lineamenti e di una purezza che cattura l’occhio di tutti quelli che la vedono all’opera.
How To Talk To Girls At Parties: Nicole Kidman, Elle Fanning e il punk (recensione)
J. C. Mitchell porta sullo schermo un originale racconto di Neil Gaiman (American Gods), confezionando quello che promette di diventare un piccolo cult.