In un panorama cinematografico italiano in cui solo negli gli ultimi anni hanno iniziato ad affacciarsi autori nuovi (anche nelle idee) e in un settore in cui la rappresentanza femminile dietro la macchina da presa è ancora decisamente troppo sparuta, il debutto al lungometraggio di finzione di Valentina Pedicini è uno di quegli eventi cui prestare particolare attenzione.
Come vi abbiamo già detto in passato, la Pedicini si è fatta conoscere per il suo eccellente lavoro in ambito documentaristico, e solo lo scorso anno ha iniziato ad esplorare (molto efficacemente) le strade della finzione con il suo corto Era Ieri.
Ora, per il suo debutto al lungometraggio di fiction, la Pedicini trova la prestigiosa produzione di Fandango e Rai Cinema e l’invidiabile palcoscenico delle Giornate degli Autori, nell’ambito della 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Il soggetto di Dove Cadono Le Ombre, questo il titolo della sua pellicola, prende ispirazione dai libri di Mariella Mehr che raccontano la storia vera della persecuzione razziale attuata dall’associazione svizzera Pro Juventute ai danni di oltre 700 bambini di etnia Jenitsch (la terza più grande popolazione nomade europea dopo i Rom e i Sinti). L’agghiacciante ‘piccolo genocidio svizzero’, protrattosi per circa cinquant’anni e diventato di pubblico dominio solo nel 1987, aveva lo scopo di sopire ogni istinto di nomadismo dei piccoli ‘zingari bianchi’ sottratti alle proprie famiglie e di trasformarli in perfetti cittadini svizzeri.
Nel raccontare questa pagina oscura della storia recente, la regista compie la scelta meno ovvia e decide di procedere per sottrazione: anziché narrare direttamente l’attività di pulizia etnica della Pro Juventute, infatti, sceglie di mostrarne gli effetti sulla vita di una donna sopravvissuta (con insanabili ferite interiori) a quell’orfanotrofio degli orrori.
Anna (Federica Rosellini), questo il suo nome, continua a vivere nell’edificio in cui ha subìto trattamenti eugenetici da bambina, come fosse un limbo che non riesce ad abbandonare. Lì si prende cura degli anziani e degli infermi che vi alloggiano, finché un giorno non arriva come ospite nella struttura l’anziana Gertrud (Anna Cotta), l’aguzzina verso la quale aveva sviluppato un malato legame quasi familiare, una complessa commistione di affetto e paura.
Generalmente, quando si confeziona il proprio lavoro di debutto, si cerca di mantenere un linguaggio ruffiano e di andare sul sicuro. Valentina Pedicini, invece, decide intelligentemente di rischiare e propone una forma filmica tanto scarna quanto meticolosa nell’allestimento scenico, nella gestione della spazialità e in una direzione attoriale di stampo prettamente teatrale.
Una fotografia algida e particolarmente curata (firmata da Vladan Radovic, autore anche delle immagini della trilogia di Smetto Quando Voglio e qui forse al suo miglior lavoro) ci restituisce interni spettrali, nei quali la cineasta fa muovere gli spiriti del passato in inquadrature di grande suggestione. I tempi sono dilatati, i movimenti di macchina sobri e minimali; il commento musicale di Paolini e Grosso sorprendentemente (e fin troppo) diradato.
In questa messinscena così rigorosa, si muove con gravità, severa e sempre compassata, una Federica Rosellini che sembra dominare la scena come usa fare con il palcoscenico. Il problema è che l’interprete, pur premiata a Venezia 74 come “attrice rivelazione” con il Nuovo Imaie Talent Award, consegna una performance da cui traspare tutto il suo già lungo e onorevole curriculum teatrale, ma che nulla ha a che vedere con la recitazione cinematografica. La totale assenza di naturalezza della sua postura sempre consapevole, la plasticità dei suoi gesti, l’intensità dei suoi sguardi fissi e la controllata pulizia della sua declamazione trascinano la pellicola in un terreno in cui scricchiola il patto di sospensione dell’incredulità con lo spettatore, e in cui il pur chiaro intento di ritrarre la rigida psiche della protagonista sfocia in una performance mai gigionesca ma sempre carente di umanità.
Impossibile pensare che la regista non abbia diretto con grande consapevolezza la sua opera prima, il che ci porta a una conclusione decisamente interessante, e cioè che la Pedicini, nel passaggio dal documentario alla finzione, non abbia intenzione di nascondere in alcun modo l’artificio creativo ma anzi opti per una sobria ma netta esplicitazione della costruzione registica. Se l’intenzione è questa, l’interpretazione della Rosellini diventa funzionale a un allestimento di un’innaturalezza perturbante. La pur notevole messinscena della regista, però, risulta comunque meno costruita della recitazione della sua protagonista, pertanto o ci sentiamo di auspicare che la Pedicini sviluppi ulteriormente la teatralità delle proprie opere, o (e propendiamo per questa ipotesi) che trovi un’attrice più naturale e spontanea, giacché Dove Cadono Le Ombre rappresenta evidentemente un incontro di due indiscutibili talenti che però faticano a remare nella stessa direzione. In tal senso la solidissima interpretazione della taletuosa Elena Cotta si dimostra molto più consona alle corde dell’autrice, mantenendo sì un’impostazione teatrale ma asservendola con mestiere ai canoni più misurati della settima arte.
La scrittura di Dove Cadono Le Ombre è decisamente solida e contribuisce con successo a creare “l’inferno di ghiaccio” di cui parlava la Mehr, qualche rallentamento di troppo sarebbe però risultato meno evidente se ci fosse stato un uso meno parco delle musiche, così fondamentali nella costruzione del ritmo. Rimane il fatto che quest’opera prima di Valentina Pedicini mostra uno straordinario potenziale che ha però ancora bisogno di un moderato labor limæ per emergere al meglio. Una storia che andava raccontata, in sala dal 6 settembre con Fandango.