Big Mouth, la nuova serie animata di Netflix, è uno degli show più scorretti tra le novità dell’audivisivo. Se pensate che la pubertà sia orribile, fastidiosa e, per certi versi, tanto drammatica da poter diventare comica, allora lasciate da parte i pop corn e prendetevi quei trenta minuti di tempo per concedere un’occasione al pilot.
La serie, ideata e scritta da Nick Kroll (Sausage Party), Andrew Goldberg, Mark Levin e Jennifer Flackett (tra le altre cose, produttrice di alcune sceneggiature di Beverly Hills 90210), è disturbante e dissacrante; i protagonisti sono un gruppetto di dodicenni alle prese con lo sviluppo e le prime – quasi incontrollabili – pulsioni sessuali, guidati da un mentore tutto sbagliato che viene chiamato Mostro degli ormoni (un programma già dal nome).
La situazione di quiete, all’inizio del racconto, è quella di quattro amici – Nick, Andrew, Jessi e Missy, (due ragazzini e due ragazzine) che frequentano la stessa classe, immaginiamo una terza media, le cui vite vengono improvvisamente stravolte dalla pubertà, dalla scoperta della sessualità, dall’esplosione ormonale che è una sciagura: peluria imbarazzante, brufoli, mestruazioni, erezioni involontarie (con conseguenze catastrofiche), emotività senza controllo. Netflix ha pensato Big Mouth per chi ha più di quattordici anni (nel profilo Kids non esiste), ma i fruitori più adatti sono decisamente più lontani dall’adolescenza: abbastanza adulti da poter sorridere delle situazioni al limite del paradosso, ma altrettanto giovani da non aver dimenticato del tutto quella sensazione di orrore e scoperta, di spaesamento e imbarazzo da cui, in un modo o nell’altro (forse con l’abitudine, forse con il tempo) tutti ci siamo salvati.
Ci sono molte scene esplicite, tanta masturbazione e un linguaggio tutt’altro che delicato. Il racconto si manifesta attraverso situazioni impossibili; il black humor e la scelta dell’animazione sono, probabilmente, l’unico modo possibile per lasciare che a raccontarci questi aspetti della pubertà siano proprio dei ragazzini.
Di tanto in tanto (una furberia da parte degli autori) i personaggi si rivolgono direttamente allo spettatore, sguardo “in camera” ed esplicitazione – ad esempio – del dubbio che suona più o meno così: “Ma non è pedopornografia, vero?”, “Forse ce la caviamo facendo un cartone animato”.
Ecco, il fatto che ci sia bisogno di far dire, ad alta voce, una cosa del genere ai personaggi significa che gli autori sono – per fortuna – consapevoli di quanto disturbante possa essere, in alcune scene, il tipo di storia che hanno scelto di raccontare. Che Big Mouth piaccia o meno dipende moltissimo dalla sensibilità dello spettatore. Senza dubbio ci sono degli sketch divertenti e momenti nonsense che scomodano persino i fantasmi di Whitney Houston, Picasso e Freddie Mercury.
Ma se decidiamo di andare oltre i primi episodi (in tutto sono dieci), al di là del linguaggio, delle pulsioni e dei genitali (sia maschili, sia femminili) parlanti, c’è un’altra sensazione che emerge: la solitudine. Dobbiamo immaginare che tutti i dialoghi con il Mostro degli ormoni siano, nella realtà dei fatti, le paranoie di dodicenni disorientati di fronte a cambiamenti irreversibili. Cambiamenti e novità tanto sconcertanti da non poter essere condivisi immediatamente nemmeno con gli amici di sempre, quei coetanei che nella solitudine delle proprie stanze vivono gli stessi tipi di turbamenti, di ansie e di scoperte. Una solitudine scelta, a volte, senza alcun motivo preciso se non la pubertà stessa, come fa la piccola Jessi, seguendo le indicazioni di Connie, il proprio ormo-mostro (una creatura selvaggia, nell’aspetto e nei modi, con una forte carica di femminilità primordiale) che l’aizza nel primo litigio adolescenziale con la mamma per poi suggerirle di consumarsi di lacrime sul cuscino.
Altrettanto impregnate di solitudine sono le scene condivise con Duke Ellington, il fantasma di uno dei più grandi jazzisti del ‘900. Un fantasma che si fa mentore autoreferenziale e che dispensa consigli fuori dal comune – e a volte fuori dal buonsenso – a Andrew e Nick, che si rivolgono a lui quasi più per la certezza della discrezione (i fantasmi non esistono!?) che per l’efficacia delle sue parole.
Tutte le scene e tutte le gag di Big Mouth sono a sfondo sessuale, dall’incubo in cui un assorbente interno con le sembianze di Michael Stipe (sì, quello dei R.e.m.) canta la resa al ciclo mestruale, fino all’imbarazzo di scoprire che i propri genitori possiedono una vita sessuale, più o meno attiva. Big Mouth non è quindi uno show per tutti ma, se si dispone di una buona dose di ironia e di un ragionevole distacco dalla materia sessuale, può essere uno spettacolo divertente e cinico, in cui trovare il modo di ridere di tutto ciò che a dodici anni sembrava inaffrontabile, sconosciuto e – in un certo senso – pericoloso.