Lucrecia Martel ha scritto e diretto il film Zama (qui la recensione), racconto dilatato ed esteticamente mozzafiato ispirato all’omonimo capolavoro della letteratura argentina. Zama è la pellicola selezionata dall’Argentina per la corsa al Miglior Film Straniero alla 90° edizione degli Oscar ed è stato presentato in anteprima alla 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Sempre a Venezia 74 è stato presentato Años Luz – Light Years (qui la recensione), documentario di Manuel Abramovich sul processo creativo di Lucrecia Martel sul set di Zama.
Lucrecia, in Zama hai cercato di ritrarre un sistema di schiavitù e di nobiltà in un mondo che è molto lontano da noi. Qual è l’origine del film?
Tutto inizia con la mia esperienza come lettrice del romanzo Zama (di Antonio Di Benedetto) e anche con questa idea che mi son fatta che quando ti capita per le mani un romanzo capolavoro – come questo – sei portato a chiederti cosa sta succedendo dentro di te mentre lo leggi.
Per me è come essere assalita da una ‘malattia’: è come se fossi intossicata da un ‘veleno’, da una percezione speciale del mondo per fuggire alla quale devo creare a mia volta qualcosa. Dato che lavoro con l’audiovisivo e ho questa possibilità, ho deciso di fare il film.
Il mio desiderio, per quest’opera, era di condividere la percezione che ho ottenuto da questo romanzo: questa percezione della ‘trappola’ dell’identità; di come noi ci creiamo da soli delle alte aspettative e, quando queste aspettative non bastano o non sono all’altezza, alla fine viviamo un periodo di grande frustrazione.
Siamo molto interessati agli aspetti di scrittura di Zama. Com’è adattare un romanzo storico?
La prima questione che è sorta è quella linguistica. Per chi non parla spagnolo non è facile rendersene conto, ma è stato abbastanza difficile capire e comprendere come la gente parlasse davvero al tempo. Tutte le fonti storiche sono testi scritti, quindi – lettere a parte – non avevamo idea di come fosse la lingua comune; anche se sappiamo che i conquistatori crearono uno spagnolo nuovo, un modo di parlare diverso.
Pensate che in Messico, a lungo andare, si è creata una forma di spagnolo che potesse essere comprensibile per tutte le persone che avrebbero ascoltato i “radio drammi”, perché in tutta l’America Latina la lingua ha sfumature diverse da paese a paese. Il vocabolario varia sensibilmente, e – ad esempio – il significato di una parola o espressione usata in Venezuela può cambiare di molto in Argentina. Così in Messico idearono questa idea di uno spagnolo che fosse “neutro” e fu una trovata geniale, anche se un po’ assurda, dato che la crearono soprattutto per le pratiche commerciali.
Per Zama ho rubato proprio questa lingua e ho aggiunto alcuni aspetti della lingua argentina, con diversi tratti dei dialetti argentini, secondo le varie regioni. Così abbiamo inventato questa nuova lingua con le nuove aggiunte e poi l’abbiamo sottoposta agli attori in modo che potessero praticarla e studiarla.
Hai attinto anche a fonti di ispirazione esterne al romanzo?
Studiando approfonditamente il periodo storico in cui si svolgono le vicende del libro ho scoperto le opere di un ingegnere spagnolo, Felix De Asada, che fu inviato in America Latina alla fine del 1700 per studiare il confine tra la colonia portoghese e la colonia spagnola, dove regnava la corruzione e nessuna delle parti voleva veramente trovare un accordo tra le due colonie. Invece di restare due anni, che era il tempo inizialmente pianificato per portare a termine il suo mandato, rimase lì per ventidue anni, e fu proprio lì, dal momento che era un uomo molto curioso, che iniziò a scrivere trattati sulle erbe e sugli animali locali. Queste letture mi hanno affascinato: ha scritto così tante informazioni interessanti! Eppure, nel prologo al libro, Felix De Asada descrive quel lungo periodo come i peggiori anni della sua vita; il che è curioso, considerato quanto ha fatto nel mentre. È anche interessante – soprattutto per l’epoca – che nonostante il suo smarrimento, sembra non abbia mai sentito il bisogno di consolarsi nella religione. Sono tutti spunti che ovviamente sono finiti nel film.
Il mondo che vediamo in Zama colpisce per la sua particolarità; la tua è una ricostruzione dalla fortissima identità.
Generalmente c’è una grandissima differenza tra l’immaginare un futuro possibile e rievocare il passato. Quando si guarda avanti bisogna avere una certa coerenza col presente, ovviamente, ma poi ci si può muovere con grande libertà nel prevedere le cose che verranno: come comunicheremo? Come ci sposteremo? Come trasformeremo lo spazio che ci circonda? Per ambientare una storia nel passato invece ci sono limiti e convenzioni molto stringenti da rispettare.
Poi però ho pensato che non abbiamo nessuna garanzia che il passato, per come ci è stato raccontato, sia veramente attendibile. Quella che studiamo oggi nelle scuole – soprattutto per quanto riguarda il passato remoto – è la storia scritta dai bianchi, dai vincitori, dai colonizzatori. Non è affatto detto che sia la perfetta descrizione del mondo di allora, anzi, probabilmente è una grande bugia. Quindi ho deciso che, nei limiti del buon senso, fosse interessante rivendicare una certa libertà nel ricostruire quel mondo. Ho lavorato a un film storico quasi come avrei fatto a uno di fantascienza.
C’è un tipo di cinema che ti affascina maggiormente? Il tuo approccio alla macchina da presa è quasi indefinibile; come costruisci la tua poetica?
Mi interesso a tutti i film. Qualsiasi tipo di film, qualsiasi tipo di tema. Se un’opera porta con sé un certo livello di ambiguità o di dubbio, allora la trovo attraente. Ma non è dal cinema che prendo il mio desiderio di filmare. Quello che veramente mi affascina è il suono, con tutto quel bagaglio inconscio che porta con sé e quel dialogo quasi morale che si stabilisce con esso. Il suono stesso, certo, ma anche quel suono che ogni ascolto genera dentro di me. È da lì che prendo le mie idee per fare i film. Arrivo a un’opera essenzialmente visiva da un’ispirazione non visiva.
Quando parlo del suono, non mi riferisco alla colonna sonora del film stesso, anche se ci sono dettagli tecnici che abbiamo sviluppato a lungo e con grande attenzione con il progettista del suono (Guido Berenblum) e con l’addetto al missaggio (Emmanuel Croset). Quando pensi alla linea temporale, questa è visiva, è qualcosa che puoi vedere con i tuoi occhi. Ma nel suono puoi andare in molte direzioni diverse, e perciò se pensi al tempo in termini di suono, il tempo diventa un volume e con il volume è possibile creare molte altre strutture narrative o adattarle in un modo diverso.
Approcciare a una storia attraverso ‘il suono’ significa poter anche attuare una sorta di riforma del tempo.
Guardando Zama si ha l’impressione di essere trasportati in un momento preciso del passato, in un contesto vivo e vissuto. Come ci sei riuscita?
È tutto inventato, ogni cosa. Dal fatto che le donne si colorassero le braccia, al fatto che tenessero rasata parte della testa. Anche le giacche che indossano gli schiavi sono un’invenzione, così come lo è il fatto che siano dipinti in parte di rosso. Pure il modo in cui gli indigeni danno la caccia ai bianchi è frutto di fantasia: l’ho concepita così perché mi piace pensare che quegli uomini possano averlo veramente fatto.
Come dicevo, ho lavorato sul film come se fosse un film di fantascienza, e se pensi alla libertà che viene da questo modo di lavorare, alla fine ti permette di liberarti da tanti stereotipi e, nel farlo, ti consente di costruire un mondo che forse ha qualche inesattezza storica ma ha tutta la complessità e l’imprevedibilità dell’uomo.
(intervista a cura di Orazio Ciancone e Lorenzo Righi)