Isabella Aguilar ha co-sceneggiato con il regista Paolo Genovese il lungometraggio The Place, in sala dal 9 Novembre, che è stato presentato come film di chiusura della Festa del Cinema di Roma. L’abbiamo incontrata prima della kermesse diretta da Antonio Monda.
Isabella, ti va di iniziare dal pitch del film?
Un uomo è seduto al tavolo di un bar, di giorno e di notte. Riceve visite di continuo. Ogni suo visitatore gli esprime un desiderio che sembra impossibile da realizzare. Eppure… lui risponde sempre: “Si può fare”. Ma chiede qualcosa in cambio. E con le sue richieste lancia un guanto di sfida a ogni coscienza: cosa saremmo disposti a fare, per ottenere con certezza quello che vogliamo? Attenzione, perché sarà quella certezza a fare una differenza molto ma molto pericolosa…
Questa è la tua prima esperienza di scrittura al fianco di Paolo Genovese. Com’è nata la vostra collaborazione?
In realtà è la mia seconda esperienza con Paolo. Prima di The Place abbiamo scritto un altro film, The First Day Of My Life, insieme a Paolo Costella e Rolando Ravello. First Day è un film molto impegnativo, artisticamente e produttivamente; è in lingua inglese e Paolo lo girerà negli Stati Uniti l’anno prossimo. Nel frattempo è nata l’idea di The Place, che invece si è sviluppata rapidamente, sull’onda di un incredibile entusiasmo collettivo nostro, della produzione, del cast e della troupe.
Dico “incredibile” perché quando un progetto cinematografico da noi va così veloce e così dritto si prova un’ebbrezza speciale. È una sensazione sana e ritemprante. Ho avuto il privilegio di scrivere sull’onda dell’ispirazione, libera, senza tutti i soliti stop and go logoranti nell’attesa dei vari finanziamenti. E quando passavo sul set sentivo lo stesso slancio e la stessa spontaneità in tutti quanti. Siamo davvero qui? Davvero lo stiamo già facendo?! Credo che questa freschezza traspaia felicemente anche nel film stesso.
Riavvolgiamo un secondo e torniamo al primo vagito di The Place. Siete partiti da… uno spunto? Un’idea? Un concetto?
Siamo partiti da una piccola serie americana che si chiama The Booth At The End, creata da Christopher Kubasik, che è un autore di videogiochi (e quel sapore lì in qualche modo si sente ancora. Sono una giocatrice di ruolo e videogame e lo apprezzo moltissimo). Comunque, da un paio d’anni me ne andavo in giro a proporre a produttori vari il remake di The Booth, perché aveva un grandissimo concept e perché offriva una sfida di scrittura estremamente intrigante. Ma il progetto non si riusciva mai a concretizzare. Quando l’ho fatta vedere a Paolo invece ha colto al volo il potenziale, e ha subito pensato in grande. “Facciamo il film!”, ha detto. All’inizio ho avuto un brivido. Ma era un brivido positivo, di sfida, sai quando tutto a un tratto si alza l’asticella? E abbiamo saltato alto.
E dopo aver saltato l’asticella?
Abbiamo cominciato a parlarne io e Paolo, a scambiarci idee, prendere appunti. Siamo ripartiti dal concept in purezza per cercarne il potenziale ancora inespresso. Un’idea così ti sfida a cercare di toccare tutte le corde più profonde, a scavare nel lato oscuro di tutti noi. E poi chiaramente volevamo raccontare il nostro contesto, la realtà del nostro paese, oggi.
Rispetto a Perfetti Sconosciuti – scritto a 10 mani – nel vostro caso la postazione di scrittura di fronte al PC era molto più larga. Che metodo vi siete dati?
Il metodo è stato molto fluido e naturale. Abbiamo parlato delle storie che ci venivano in mente e poco a poco hanno preso forma. Alcune sono prese dalla serie originale e rilavorate, altre sono nostre. Abbiamo dialogato fitto, in un circolo virtuoso che ha girato su ogni media possibile e immaginabile: dal vivo, via e-mail, WhatsApp e con messaggi vocali blitz per acchiappare quell’idea buona che ti arriva mentre fai tutt’altro. Poi ovviamente abbiamo lavorato su Final Draft: mandavo il file a Paolo che rimandava il file a me e via così, e di volta in volta il copione si definiva, prendeva vita. Ogni volta che avevamo qualcosa di abbastanza buono ci vedevamo e leggevamo tutto ad alta voce. Che è l’unico modo per dare verità ai dialoghi.
E invece qual è stata la vostra principale difficoltà in sede di scrittura?
Il film, c’è poco da fare, ha una struttura difficile. Tanto per cominciare ci sono undici protagonisti in scena! E alcune delle loro storie si intrecciano progressivamente, sorprendentemente, è un meccanismo a orologeria. Non posso dire di più perché rovinerei la visione a chi legge, ma in The Place succede di tutto: c’è pathos, c’è thriller, c’è azione, e tutto questo deve arrivare al pubblico solo attraverso parole e volti perché, di fatto, siamo inchiodati al tavolino di un bar.
La difficoltà è stata allora quella di tenere lo spettatore, letteralmente, sotto incantesimo per tutto il tempo del film. Di prenderlo, ipnotizzarlo e fargli arrivare il senso, le emozioni e la sconvolgente esperienza di vita di quegli undici personaggi soltanto attraverso le parole. Parole giuste messe nel modo giusto al momento giusto. Ma, sinceramente, non ho mai dubitato che ce l’avremmo fatta. E non solo perché sono presuntuosa, ma perché Paolo era sicuro di quello che faceva. Emanava convinzione, proprio. Già lo vedeva, il film. E questo mi ha fatta sentire molto sicura. Per uno sceneggiatore credo non ci sia sensazione migliore. Il nostro lavoro implica una staffetta, e quando passi il testimone e sai che davanti hai un centometrista del diavolo ti rilassi moltissimo.
Rispetto ai precedenti film che hai scritto, The Place ha sicuramente un budget più importante. Questo ha influenzato la tua scrittura?
Ti confesso che non ho la minima idea di quanto sia costato The Place. Immagino tu ti riferisca al costo del cast stellare, perché è ovvio che con una sola location non ci sono altre voci rilevanti nel budget. Ma se ci pensi, l’approccio alla scrittura vera e propria di un film così è da micro-budget: prendi undici personaggi e mettili in una stanza. Non hai nient’altro.
Ci puoi spiegare la scelta del titolo? Volevate ricordarci l’anglofilia imperante nelle insegne dei bar romani? O volevate raccontare una storia universale, comprensibile anche fuori dall’Italia?
Il titolo l’ha scelto Paolo e non ti so dire come gli sia venuto in mente. Posso dirti però che prima ne avevamo pensati a decine, ed erano uno più brutto dell’altro! Quando è venuto fuori The Place ho pensato… Oddio, non lo so, perché un titolo in inglese? Ma poi ho pensato pure: in fondo perché no? The Place ha le tre doti del titolo indovinato: suona bene, è tematico, ti resta impresso. È in inglese ma non ostacola, chiunque da noi capisce cosa significa. E si può esportare all’estero direttamente così, il che non guasta affatto.
Tu che l’hai visto crescere, dove piazzi The Place nella mappa del cinema italiano aggiornata al 2017? È un film appartenente al genere fantastico? È un film drammatico? A che pubblico si rivolge? Vuole innovare? Vuole emozionare?
È un film fantastico e drammatico, sì. Nel senso che ha una premessa fantastica che veicola una questione esistenziale che ci riguarda davvero tutti. Che è rimasta nelle mappe dall’antica Grecia al 2017.
E poi è un film fortemente sperimentale, quindi l’ho sempre considerato fuori dal tempo. Fuori dalle mode, sicuramente. In questo senso vuole innovare, certo. Vuole emozionare? Sì, se non emozionasse non comunicherebbe nulla di fondamentale. Il mio unico timore è che il pubblico possa aspettarsi, per equivoco e abitudine, una commedia. Allora lo dico chiaro: le emozioni qui sono forti, non edulcorate, non di maniera, non facili e niente affatto rassicuranti. È un film fantastico, come ti ho detto, ma è un film molto “vero”. E siccome riguarda tutti noi, siccome è pensato a partire da una sorta di fenomenologia di desideri e paure che toccano diverse età della vita e diversi orientamenti sociali ed esistenziali, spero e credo che possa arrivare ad un pubblico molto ampio.
Sei molto attiva anche nella scrittura televisiva. A tuo parere c’è differenza tra il lavoro fatto per The Place e quello che giornalmente svolgi su serie lunghe?
La struttura del film ha una radice seriale, quindi il sistema di lavoro stavolta è stato per certi versi simile a quello che uso quando scrivo serialità. La libertà artistica invece è stata inevitabilmente altra rispetto ad alcuni prodotti generalisti che ho scritto in passato. Ultimamente però ho la fortuna di poter creare e scrivere serie ambiziose, quindi non ho né ragione, né voglia di lamentarmi. Anzi, credo che finalmente la serialità italiana stia evolvendo il suo linguaggio in modo massiccio. E il merito va al grande pubblico che ha finalmente scoperto le serie di qualità, all’incursione di interlocutori internazionali sul nostro mercato e all’interesse che i nostri migliori autori di cinema hanno destato in questi interlocutori dopo decenni un po’ oscuri. Penso a Sorrentino, Garrone, Paolo Virzì… Stiamo risalendo la china.
Il vostro film chiuderà la Festa del Cinema di Roma. Cosa ti aspetti da questa partecipazione? Oltre a essere applaudita per il tuo look sul red carpet…
Già di norma da noi uno sceneggiatore sul red carpet è uno a cui chiedono gentilmente di scansarsi per poter fotografare in pace qualcun altro, figurati con Paolo e undici attori di quel calibro che sfilano a raffica… Guarda, pensavo di mettermi un paio di sneakers e passare direttamente dal retro. No, scherzo, mi imbucherò sul tappeto rosso sorridente e in equilibrio precario sul tacco 12. Per il resto non so davvero cosa aspettarmi. So cosa spero: che il film piaccia e che questo faccia bene a me come autrice e da me in su a tutta la catena. Spero che la gente vada in sala, perché la stagione cinematografica quest’anno è partita male. E i cinema chiudono. È un fenomeno complesso, in parte è inevitabile, in parte magari invece no. Ma su questo ci vorrebbe una chiacchierata a parte.
Ti va di segnalarci un film o una serie che hai visto recentemente e che secondo te ogni bravo sceneggiatore dovrebbe vedere?
Premetto quel che mi sembra ovvio, cioè che ogni bravo sceneggiatore dovrebbe vedere tutto quello che per un motivo o per l’altro accende la sua curiosità, senza snobismi e barriere, perché la creatività di ciascuno è un sistema vivo, complesso e imprevedibile. A volte anche il peggior B-movie può nascondere una grandissima idea, un movimento, un personaggio, una battuta che ti illumina, come persona e come autore. Lo dico perché mi capita talvolta di sentire autori colti predicare la dottrina dell’ignoranza. Come se vedere qualcosa di non eccelso potesse bruciarti il cervello! Tra le serie che sto guardando in questi giorni consiglio: Mindhunter – classica ma di grande qualità; Mr Mercedes – finalmente un buon adattamento da Stephen King; The Deuce – David Simon non si batte. Il film migliore che ho visto al cinema da settembre a oggi è Dunkirk. Dritta o storta, con gli amici ne stiamo ancora parlando (ma eviterei di ammorbarvi pure qui).
La Writers Guild Italia si batte perché venga riconosciuta agli sceneggiatori l’importanza del proprio ruolo, mentre spesso anche nei Festival di cinema i loro nomi non vengono menzionati. Cosa ne pensi?
Di questa pratica penso tutto il male possibile. È ipocrita e profondamente irrispettosa verso gli autori. È una cosa che mi fa molto incazzare. È come rinnegare i propri genitori. Noi abbiamo la paternità e maternità delle nostre storie e ci ritroviamo a doverle difendere. Perché è così faticoso? Mentre rilascio questa intervista sto cercando di rimediare all’errore del mio cognome scritto con due “L” sulla locandina del film! E non sarò diplomatica ma voglio dirlo, perché mi sembra un buon esempio del pasticcio da cui dobbiamo tirarci fuori.
Non sediamo al tavolo della conferenza stampa. Non veniamo chiamati sul palco durante le presentazioni. Non veniamo nominati nel novanta per cento dei pezzi della campagna stampa, e quando accade di solito c’è la magagna, tra nomi sbagliati e curriculum ignorati. Quasi nessuno da noi riconosce gli sceneggiatori, non il pubblico, non la critica. E quindi, certo, il lavoro di WGI è fondamentale e lo seguo dall’inizio con grande interesse. Io faccio parte dei 100 autori e mi piacerebbe molto che si trovasse un modo per unire una volta per tutte le forze degli sceneggiatori iscritti ai due gruppi. Più siamo, più ci facciamo sentire.
(intervista a cura di Vincenzo Sangiorgio)