Per il secondo anno di fila Carlo Vanzina, in occasione della sua immancabile uscita (pre)natalizia, punta al genere caper (l’heist virato alla commedia) e torna in sala con Caccia al Tesoro, che ancora una volta vede protagonista Vincenzo Salemme, stavolta affiancato da Carlo Buccirosso e Max Tortora e, sul versante femminile da Serena Rossi e Christiane Fialngieri.
ALLE ORIGINI DEL CAPER, DA MONICELLI A RISI
Anche stavolta i richiami all’immaginario americano non mancano, a partire dagli apprezzabilissimi titoli animati in stile sixties e alcuni commenti musicali di matrice vagamente cool jazz (il pensiero vola immediatamente all’Ocean’s 11 di Lewis Milestone, anno 1960), ma si fa più marcato il riferimento all’esperienza nostrana, dal Monicelliano I Soliti Ignoti – che nel 1958 definì i paradigmi del genere – al meno conosciuto ma qui ben più pertinente Operazione San Gennaro di Dino Risi (1966), con Manfredi e Totò, che viene ironicamente richiamato direttamente in un dialogo tra Salemme e Buccirosso (“Plagio? No, citazione semmai!”).
La storia, nel solco della tradizione, vede un gruppo di poveracci organizzarsi per affrontare un colpo al di fuori della loro portata, dovendo poi fare i conti con un’ampia serie di imprevisti dovuti principalmente alla propria inesperienza. Domenico (Salemme), dopo aver scambiato la voce di un parcheggiatore per quella di San Gennaro, si sente legittimato a trafugare la preziosissima tiara del santo per finanziare la costosa operazione che salverà la vita del figlio di sua cognata Rosetta (la Rossi). Per portare a termine il colpo si avvarrà della collaborazione di Ferinando (Buccirosso), rimasto sul lastrico dopo il divorzio, ma quando l’improbabile gang fallirà nel proprio intento e si imbatterà in un’altrettanto sgangherata banda composta da Cesare (Tortora) e Claudia (la Filangieri), i ladri decideranno di unire le forze per tentare un colpo ancora più complesso in quel di Torino.
Nonostante un’infinità di problemi che l’affliggono, da un certo punto di vista la pellicola funziona sorprendentemente bene: la sceneggiatura dei fratelli Vanzina (nei confronti della quale le pretese devono comunque esser modeste) fila, almeno fino a un finale orribilmente forzato, il ritmo del film scorre bene, non mancano momenti divertenti e, soprattutto, il cast funziona magnificamente.
UN CAST DI GRANDI PROFESSIONISTI DELLA COMMEDIA
È triste che interpreti tanto validi non riescano a trovare una collocazione cinematografica più nobile, ma rimane il fatto che – a dispetto di una filmografia a dir poco scadente – Salemme, Buccirosso e Tortora sono dei professionisti di primissimo livello, la cui bravura non riesce a passare in secondo piano nemmeno in un lungometraggio ‘di cassetta’. Essere grandi attori di commedia significa saper arricchire la parte di sfumature e dettagli, tenendo sempre presenti i tempi comici, e in tal senso Vanzina non poteva fare una scelta migliore: basti vedere la clip che vi proponiamo in fondo alla recensione per farvi un’idea.
C’è poi la Rossi, recente scoperta del cinema nostrano che, pur apparendo per un minutaggio piuttosto ridotto in Caccia al Tesoro, brilla in tutto il suo carisma. Serena Rossi è un miracoloso esempio di grande talento, bellezza e carattere; una scoperta rara che ci auguriamo – come pare stia avvenendo – abbia una carriera sempre più rapida e fortunata nel cinema italiano. C’è da sperare solo che faccia le scelte giuste in termini di parti.
UNA REALIZZAZIONE CRIMINALE
Se l’idea di base di Caccia al Tesoro funziona e il cast contribuisce a una riuscita convincente, ciò non significa che la pellicola sia priva di difetti.
Quel che colpisce un occhio allenato è il fatto che in oltre quarant’anni di carriera Carlo Vanzina non ha mai imparato a riprendere un dialogo. L’imbarazzante pochezza della costruzione piatta e meccanica di campo e controcampo da parte del Signore dei Cinepanettoni, unitamente al montaggio pieno di errori di Luca Montanari (la cui filmografia, al pari di quella del regista, rasenta il crimine contro l’umanità) e a qualche scelta di fotografia di Enrico Lucidi (l’illuminazione della scena finale in carcere è quasi dilettantistica), trascina la pellicola su un piano a dir poco lontano dal livello minimo che sarebbe lecito aspettarsi quando si paga un biglietto per il cinema.
Il comparto audio è altresì indifendibile: la pessima scelta (o necessità) di ridoppiare in post molti degli scambi tra gli interpreti fa sì che si presenti spesso un fastidioso fuori sincrono e, anche alla luce di un mix vococentrico che porta ad avere un volume del parlato sproporzionatamente alto rispetto a quelle che dovrebbero essere le dinamiche ambientali, il risultato è a dir poco innaturale, ben lontano da quelli che dovrebbero essere degli standard cinematografici.
Ad affossare definitivamente il film vi è poi un elemento che di certo non dovrebbe risultare dirimente, e che però denota la totale sciatteria con cui il regista decide di ‘portare a casa’ il film: le comparse. La scelta dei figuranti potrebbe sembrare una delle fasi più irrilevanti nella confezione di un prodotto filmico, ma quando a un cast di professionisti si affiancano una serie di personaggi che non solo sembrano trovarsi per caso sul set, ma che paiono addirittura impegnarsi con ogni fibra del proprio essere per fare del proprio peggio, allora quelle che dovrebbero essere delle figure di sfondo finiscono per passare drammaticamente in primo piano. E un regista dovrebbe rendersi conto di quel che accade in scena.
LA CAMORRA HA UN CUORE GRANDE? DAVVERO?
Al netto di qualche indegna scelta ‘comica’ da Cinepanettone (si pensi al vergognoso scontro tra un drone e un Salemme che simula gigionisticamente un mal di denti), quel che poi lascia esterrefatti è la morale finale, in cui si giunge all’inaccettabile conclusione che la Camorra ha un cuore grande. Sì, sul serio. Come dice il boss: “siamo gente di malavita ma abbiamo un cuore grande”. Brividi.
Se però credete che questa raggelante svolta dello script sia l’ultimo modo in cui il film infierirà sullo spettatore, allora non avete fatto i conti con le inquadrature finali. Delle panoramiche col drone ormai non si negano più a nessuno, ma il momento in cui, poco prima dei titoli di coda, vi ritroverete improvvisamente davanti delle riprese aeree con una risoluzione e una qualità semplicemente inaccettabile, risulterà tanto ridicolo quanto offensivo. Ma attenzione: Vanzina potrebbe sempre provare a difendersi dicendo che si tratta di una scelta creativa.
In conclusione, Caccia al Tesoro rappresenta comunque un salto di qualità rispetto ad altri lavori indegni del regista (da A Spasso Nel Tempo ad Olé, tanto per citare qualche titolo), ma rimane la dimostrazione di come attori dalla grande professionalità, che potrebbero meritarsi contesti molto più interessati, finiscano per ritrovarsi a volte (o spesso) su set nei quali si lavora seguendo il mantra dell’indimenticato René Ferretti: “A noi la qualità c’ha rotto er cazzo”.