In un momento storico in cui l’interesse per l’artista svizzero Alberto Giacometti sta ritrovando terreno fertile – ne sono un esempio l’esposizione delle sue opere al National Portrait Gallery di Londra e il padiglione svizzero a lui dedicato all’interno della Biennale di Venezia – Stanley Tucci porta finalmente al cinema il suo quinto lungometraggio, frutto della sua profonda passione per l’arte e per questo artista in particolare. Final Portrait, di cui Tucci firma sia la regia che la sceneggiatura, è un film assolutamente anomalo e bellissimo, ironico e straordinariamente acuto. Nella Parigi del 1964, Alberto Giacometti (Geoffrey Rush), pittore e scultore di enorme successo ma vittima di accessi di rabbia dovuti all’insicurezza riguardo la sua arte, chiede a James Lord (Armie Hammer) di fargli da modello per uno dei suoi famosi ritratti. Questione di ore: un pomeriggio, due al massimo. Saranno in realtà ben due le settimane durante le quali Lord, con infinita pazienza, toccherà con mano il processo creativo alla base delle opere di Giacometti, instaurando con lui la più improbabile delle amicizie.
LA STORIA DI UN INCONTRO
Un artista puro, paranoico e ansioso da una parte; un flȃneur newyorkese dall’altra, bello, elegante e posato: sono questi i due poli opposti in cui il regista si muove portando alla luce un ritratto che si discosta volutamente dal classico biopic. Stanley Tucci, che il grande pubblico conosce per le sue innumerevoli interpretazioni, da Amabili Resti (che gli valse una candidatura agli Oscar) a Transformers, passando per Il Diavolo veste Prada e Hunger Games, decide di non dirci nulla di più di quello che accade in quelle due settimane nell’atelier parigino dell’artista elvetico. Non sappiamo nulla della vita di Giacometti, quando e dove è nato, e soprattutto come è diventato l’artista che è. A malapena sappiamo, grazie a una fugace notizia, che morirà poco dopo gli avvenimenti del film. Il regista inoltre non ci rende partecipi del contesto politico dell’Europa di quegli anni, del fermento e della rivoluzione che la storia dell’arte stava vivendo: dall’altra parte del mondo Andy Warhol presentava le sue prime serigrafie, ponendo le basi della Pop Art, così distante dall’esistenzialismo di cui Giacometti era stato protagonista in prima linea. Nessun accenno alla straordinaria vita dell’artista svizzero. Eppure ormai sappiamo quasi tutto, perché è attraverso l’analisi del dettaglio, dei gesti e delle parole concentrati in quel suo brevissimo tempo di vita, che si dispiega tutta l’essenza dell’anima di Alberto Giacometti.
IL GIACOMETTI DI RUSH
Quello che giunge allo spettatore è l’intimo ritratto di un genio, una perfetta simbiosi di uomo e artista, anime inseparabili e condizione imprescindibile per una reciproca esistenza. Straordinario protagonista di Final Portrait è Geoffrey Rush, donato di una somiglianza impressionante con l’originale, ma che, grazie al talento che lo contraddistingue, non si è risparmiato nel calarsi perfettamente nella parte, tanto da portare sullo schermo una caratterizzazione del personaggio complessa e eccezionale. Il suo Giacometti è un uomo con una fortissima etica del lavoro quanto noncurante della moglie, alla quale preferisce una giovane e bella prostituta francese; è generoso e affezionato al fratello Diego (un formidabile Tony Shalhoub) quanto dedito al vino e alle sigarette. Eppure non è mai, neanche una volta, una persona crudele.
LO SGUARDO SICURO DI TUCCI
I continui accessi d’ira che contraddistinguevano l’artista durante il processo creativo sono bilanciati da uno script impregnato di un’ironia in perfetto equilibrio con il suo profondo senso di insoddisfazione e ansia nei confronti dell’opera d’arte. Non c’è alcuno schematismo nel lavoro che Stanley Tucci ha fatto in sede di scrittura, così come non vi è nella sua regia. La macchina da presa si muove in tre direzioni separate e confluenti allo stesso tempo: l’indagine che Giacometti fa del suo modello durante la lavorazione al ritratto, l’indagine che James Lord fa del processo creativo dell’artista, e infine la nostra, che racchiude l’una e l’altra in una partecipazione tanto profonda che sembra quasi di toccare l’epidermide dei personaggi in scena. Un lavoro minuzioso a stretto contatto con quello della fotografia, grazie a un sistema di luci predisposto già in fase di pre-produzione che ha permesso grande libertà di movimento alle due macchine a spalla presenti sul set, smorzando del tutto il pericolo di staticità che avrebbe comportato la ripresa di due personaggi immobili in un piccolo spazio.
Infine la colonna sonora, dal sapore squisitamente francese, è il perfetto contrappunto ironico all’abbondanza di colori grigi che caratterizzano le ambientazioni scelte da Tucci, perfette cartine al tornasole dell’atteggiamento artistico del protagonista.
Final Portrait non è uno sterile omaggio ad Alberto Giacometti, artista che procedeva per sottrazione, facendo e disfacendo continuamente le sue opere, o una semplice raffigurazione delle sue insoddisfazioni, ma è anche una grande riflessione che Stanley Tucci compie su uno degli argomenti più discussi dagli storiografi dell’arte: il non finito, l’incompleto, è dai tempi dell’ultima fase di Michelangelo un’intenzione espressiva ben precisa. E così, l’inconcluso di Giacometti è soprattutto l’Inconcludibile che esprime la nevrosi dell’artista, sintomo di una sensibilità che non appartiene ai semplici uomini.
Se Stanley Tucci ha ormai dato prova di essere un attore camaleontico e un regista accorto, con Final Portrait si conferma una presenza viva all’interno della cinematografia, regalando al pubblico questo gioiello che è sicuramente il suo film più intimo e appassionato. Final Portrait sarà nelle nostre sale dall’8 febbraio con BiM Distribuzione.