Giovedì 8 febbraio arriva nelle sale italiane il quinto lungometraggio scritto e diretto da Stanley Tucci, conosciuto al grande pubblico per le sue innumerevoli partecipazioni a film che spaziano dal cinema indipendente fino ai grandi blockbuster. Questa volta abbandona le scene per dedicarsi alla regia di Final Portrait, il suo film più intimo, dettato dalla passione per la storia dell’arte e in particolare per le opere senza tempo del pittore e scultore Alberto Giacometti, qui interpretato da un sensazionale Geoffrey Rush e accompagnato da Armie Hammer, questi giorni in sala con l’ultima fatica di Luca Guadagnino, Chiamami col tuo nome. Lo abbiamo incontrato per voi in occasione della presentazione romana del suo film, ecco il resoconto.
Come mai ha scelto questo tipo di racconto e non il classico biopic, vista la grande letteratura a disposizione riguardo la vita e le opere di Alberto Giacometti?
Non credo nei biopic. Troppo spesso risultano essere una serie infinita di fatti, un’esposizione lineare e quasi cronologica degli eventi che girano intorno alla vita di una persona o di una artista e che poi vengono condensati in due ore di pellicola. Trovo invece molto più interessante concentrare l’attenzione su un episodio o un periodo ristretto della vita di una persona, un artista in questo caso, per immergermi fino in fondo e scoprire attraverso quel momento breve e concentrato l’essenza stessa di quella vita. E spesso è proprio il dettaglio che ci da un quadro più completo di quell’anima, permettendo al valore universale del racconto di uscire fuori dalla sceneggiatura.
Non ha avuto la tentazione di interpretarlo lei stesso?
Certamente. Ma ho escluso immediatamente questa soluzione perché mi sono convinto che il film ne avrebbe sofferto. È uno sforzo enorme quello di dirigere se stessi perchè la tensione risulta inevitabilmente divisa e non sufficientemente concentrata nell’insieme del film.
Da cosa è nato il desiderio di portare sullo schermo un argomento tanto vasto e come è cambiato il suo rapporto con il mondo dell’arte dopo questa esperienza?
Sono cresciuto in una casa di artista, mio padre era un artista e insegnava arte a scuola. Insieme alla mia famiglia abbiamo viaggiato tanto, e abbiamo vissuto anche un anno a Firenze. Naturalmente questo tempo trascorso nel vostro paese ha coinciso con la scoperta dell’arte italiana, in particolare quella del Rinascimento che ho imparato ad apprezzare fin da ragazzo. E quando respiri l’arte nell’ambiente famigliare è inevitabile che questo insegnamento resti con te e ti accompagni fino a formare il gusto estetico per quello che si sceglie di fare. Io stesso ho studiato disegno e sono un assiduo frequentatore di musei. Ho ritenuto che Giacometti fosse sicuramente uno degli artisti più interessanti per quello che è riuscito a compiere nelle sue opere e questo libro, Un Ritratto di Giacometti di James Lord, è quello che meglio esprime il processo di creazione artistica, con tutte le difficoltà, le gioie, i dolori e le ansie. Per questo è stata una sorta di progressione naturale per me avere voglia di trasformarlo in un film.
Come ha gestito con Geoffrey Rush le tensioni e i momenti creativi, riuscendo ad avere equilibrio tra questi due stati d’animo in realtà così opposti?
Goeffrey ha avuto tempo due anni per fare ricerche e documentarsi, mentre noi cercavamo di montare la produzione e trovare i finanziamenti per fare il film. Si è immerso in un lavoro di ricerca enorme e prima di girare abbiamo provato per una settimana come se fosse una pièce teatrale. Era importante per me che ci fosse una coincidenza tra la fisicità dell’esercizio artistico di Giacometti e la sua dimensione interiore. Per Geoffrey la cosa più difficile è stata quella di sentirsi a suo agio nell’avere gli accessi di rabbia che aveva Giacometti, e nel padroneggiare il pennello, lo strumento per dipingere. Una volta che si è sentito a suo agio in queste due cose è stato semplicemente straordinario. Non dimentichiamo che non è soltanto un attore molto bravo, ma è anche estremamente giocoso: spesso non fermavo la macchina da presa tra un ciak e l’altro continuando a filmarlo in modo da tenere presente questa sua spontaneità innata. Spesso un’elaborazione troppo eccessiva va a discapito della recitazione, ma in questo modo abbiamo preservato il suo estro.
Il rapporto che si crea tra Giacometti e il suo modello sembra quasi un rapporto sadico. Che idea si è fatto riguardo questo aspetto? C’è veramente l’elemento sadico o c’è stata una elaborazione da parte sua?
Penso che ci sia un po’ di sadismo in ogni artista. Quello che è nel film è esattamente quello che troviamo negli scritti di James Lord. Peraltro ho avuto l’opportunità di parlare con tre modelli di Giacometti che all’epoca avevano 15-16 anni e hanno confermato la sua famosa indole: in un primo momento era una persona molto affabile, affascinante,. In una fase iniziale parlava molto per poi tacere e chinare la testa in un momento depressivo a cui seguivano gli accessi di rabbia, specialmente se lavorava con gli adulti. Con i giovani si conteneva un pochino di più.
Vedendo il film torna alla memoria un racconto di Honoré de Balzac, Il Capolavoro Sconosciuto, in cui si affronta esattamente il tema della ricerca della perfezione. Una nevrosi che fa parte del temperamento artistico. Perché ha cosi approfondito questo argomento e che rapporto c’è anche nella sua arte una tensione di questo tipo?
Credo faccia parte di ogni artista, quindi anche a me, la nevrosi, l’ansia, il senso di insoddisfazione, in quello che è un movimento costante non tanto verso la perfezione quanto verso la creazione di qualcosa che si veritiero. Credo sia veramente questo lo scopo di ciascuno artista. Conosco il racconto di Balzac che era anche il soggetto di un film di Jacques Rivette, La Bella Scontrosa: e è un film molto bello, peccato che alla fine il ritratto lo si veda, e questo sminuisce a mio giudizio l’intero film. Anche io ho accarezzato l’idea di non mostrare mai il ritratto nel mio film, ma mi sono reso conto che sarebbe stato troppo pretenzioso da parte. Quello che mi affascinava era il processo artistico, come un artista si misura con il frutto della sua arte. Quella storia è una delle più importanti mai state scritte in termini di analisi del processo creativo e guarda veramente all’arte moderna. I lettori alla fine della storia hanno quasi l’impressione che l’artista sia pazzo: io non credo lo sia, è proprio la sua capacità di guardare oltre, in un mondo che ancora non c’è.
La scelta della colonna sonora risulta davvero felice e di grande impatto. Ma allo stesso tempo stride con le immagini.
La musica all’inizio del film è la classica fisarmonica francese, e lo spettatore in questo modo si immagina di immergersi in un atmosfera squisitamente francese. E invece si trova in un mondo mortifero che è quello della difficoltà della creazione artistica. Per il resto le musiche dovevano essere in grado di cogliere l’equilibrio degli avvenimenti. A me non piace una presenza sovrastante della musica nei film. deve essere tutto perfettamente bilanciato anche laddove l’intenzione è quella di confondere lo spettatore e giocare con le sue emozioni.
Il tipo di ripresa aiuta lo spettatore a sentirsi partecipe della realizzazione del quadro e del rapporto dei due che si instaura all’interno dello studio di Giacometti. La scelta è stata fatta in questo senso?
Gran parte del film ritrae due figure in posizione assolutamente statica, quindi era necessario dare un minimo di movimento e di senso di vita che invece sarebbe risultata troppo pesante. Questo senso di movimento è stato possibile anche grazie al direttore della fotografia Danny Cohen, che pianificato a priori l’illuminazione a seconda delle ore del giorno in cui dovevamo girare, in modo da rendere le macchine da presa libere di muoversi più velocemente possibile e con maggior agio. In questo modo abbiamo guadagnato in spontaneità e in movimento.
Come mai oggi in un epoca di facilissimo accesso alle immagini e all’ossessione per la perfezione fotografica, Alberto Giacometti, che ci ha invece insegnato la lotta con l’immagine, sta avendo ancora successo?
Le sue sono opere senza tempo. Le sue opere pittoriche, ma soprattutto quelle scultoree sembrano essere state fatte migliaia di anni fa, con tecniche decisamente preistoriche. Un momento dopo invece sono di una modernità disarmante. È questa qualità, quella di essere senza tempo, che gli ha permesso di esprimere, meglio di chiunque altro, la condizione umana.