Si sa, il percorso che porta a una candidatura agli Academy Award risente di molti fattori, non necessariamente artistici (l’abbiamo spiegato nel dettaglio qui), e spesso grandissimi film che meriterebbero a pieno titolo di concorrere, restano completamente esclusi dagli Oscar. Alcuni dei film presenti agli Oscar 2018 avrebbero meritato di comparire anche in categorie nei quali non sono stati menzionati, certo, ma in questa sede vogliamo concentrare la nostra attenzione su pellicole a loro modo straordinarie che però sono state completamente snobbate dall’Academy, non ricevendo nemmeno la più ‘irrilevante’ delle nomination. Per ricordare quanto il cinema non sia solo quello che viene celebrato al Dolby Theatre con le statuette dorate, abbiamo quindi studiato nel dettaglio tutte le pellicole eleggibili ma ignorate, e ci siamo divertiti ad assegnare noi i nostri “Premi Anti-Oscar” (o “Oscar Anonimi”, eravamo indecisi sul nome), categoria per categoria, nell’ordine in cui sono stati consegnati gli Oscar nella notte del 4 marzo.
Miglior Attore Non Protagonista: Bryan Cranston (Last Flag Flying)
Il grande talento dello storico interprete di Walter White in Breaking Bad non è certo una novità, e l’Academy già se n’è accorta ai tempi di L’Ultima Parola – La Vera Storia di Dalton Trumbo. È però indecente che agli Oscar 2018 Bryan Cranston non fosse in corsa per la sua straordinaria interpretazione in Last Flag Flying. L’ultimo film di Richard Linklater, ancora inedito in Italia, ha regalato infatti all’attore il suo miglior ruolo dai tempi dello show ABC, facendoci scoprire un incredibile talento comico che però viene arricchito da momenti di intensissima emozione. Una performance magistrale, che avrebbe tranquillamente potuto sfidare quella – pur maiuscola – di Sam Rockwell.
Miglior Trucco e Acconciature: IT
Riscrivere l’iconografia del terrificante clown che avevamo imparato a conoscere con il volto di Tim Curry era un’operazione decisamente rischiosa, ma Tom Woodruff Jr e Alec Gillis sono riusciti a creare per l’IT di Andy Muschietti un design che è diventato immediatamente patrimonio dell’immaginario collettivo, con scelte coraggiose che in pochi avrebbero preso (si pensi alla parte superiore della protesi, in cui le sopracciglia sono incise nella pelle squamosa, agli occhi divergenti o agli incisivi così sviluppati). Se anche volessimo fermarci a considerare solo il pagliaccio, ignorando ad esempio il notevole trucco del lebbroso, il make-up di It avrebbe potuto tranquillamente esser premiato agli Oscar 2018 per la sua capacità di diventare un instant classic.
Migliori Costumi: Lady Macbeth
Holly Waddington ha alle spalle una lunga gavetta nel reparto costumi, ma nonostante Lady Macbeth di William Oldroyd sia una delle primissime produzioni nelle quali riveste il ruolo di costumista principale, il risultato del suo lavoro è tanto ragguardevole da meritare senza dubbio almeno la nomination nella rispettiva categoria agli Oscar 2018. La pellicola basata sul romanzo di Leskov è tanto spietata quanto algida e avara di ogni ammiccamento verso lo spettatore, eppure i costumi progettati dalla Waddington diventano una nota fondamentale nella caratterizzazione di una protagonista di straordinario carisma, il cui meraviglioso abito vittoriano di color blu diventa per Florence Pugh uno strumento fondamentale per costruire l’interpretazione.
Miglior Documentario: Jim & Andy
Jim & Andy: The Great Beyond – The Story of Jim Carrey & Andy Kaufman Featuring a Very Special, Contractually Obligated Mention of Tony Clifton, stupendo documentario di Chris Smith distribuito internazionalmente da Netflix, è un altro dei grandi assenti ingiustificati degli Oscar 2018. Questo lavoro interessantissimo e pieno di poesia è incentrato principalmente su Jim Carrey, e nello specifico su quanto l’attore canadese si sia spinto oltre con il method acting nella sua interpretazione di Andy Kaufman in Man On The Moon (1999) di Miloš Forman. Il lavoro di Smith finisce per essere un’opera di difficile definizione, che omaggia la settima arte ma al contempo indaga la psiche fragile e complessa di Carrey, accostandola a quella altrettanto particolare di Kaufman. Un documentario intriso di emozione e ricco di curiosità cinefile, che avrebbe tranquillamente potuto vincere l’ambita statuetta. E invece non ha ricevuto nemmeno la nomination.
Miglior Montaggio Sonoro: Madre!
Il lavoro fatto in Madre! di Darren Aronofsky dalla sound designer Paula Fairfield e dal sound designer/editor Craig Henighan è semplicemente incredibile. Tra scricchiolii, strane polveri effervescenti, creature immonde che si nascondono in un water, volti che esplodono sotto il colpo di un fucile, incendi devastanti, pianti di neonato e suppliche corali, il panorama sonoro presente nel film con Jennifer Lawrence è tanto vasto quanto eterogeneo. Quel che però sorprende del lavoro di Fairfield e Henighan è la capacità di rendere protagonista ognuno di quei suoni, creando al contempo un’identità acustica molto precisa in un contesto in cui la confusione avrebbe potuto facilmente prendere il sopravvento. Provate ad ascoltare attentamente la clip qui sopra chiudendo gli occhi…
Miglior Sonoro: Madre!
Una discesa continua e ininterrotta in un incubo, che si snoda nei meandri della pianta ottagonale di una grande casa che progressivamente si trasforma prima nel teatro di un’idolatria esoterica e poi un campo di battaglia su cui si riproducono in piccolo le dinamiche dell’umanità. Così come lo scenografo Philip Messina ha concepito i punti di entrata e uscita da ogni stanza in modo che tutto il film fosse un percorso senza soluzione di continuità, così il sound mixer Simon Poudrette ha saputo gestire una messe caotica di sonorità ai limiti del controllabile trasformandola in un divenire credibile e coinvolgente, destinato a sopraffare lo spettatore ma sempre capace di aiutarlo a focalizzare l’attenzione su quel che conta in ogni frame.
Miglior Scenografia: Madre!
Il lavoro svolto dallo scenografo Philip Messina per Madre! di Darren Aronofsky è infinitamente più stupefacente di quanto non si possa cogliere a una prima visione del film. Il set della casa è stato fondamentale per Aronofsky sin dalla preproduzione del film, tanto che per 3 mesi gli attori principali hanno provato ogni linea di copione e ogni passo in un capannone sul cui pavimento era riprodotta a grandezza naturale la planimetria della casa. L’edificio, che non esiste ma è stato costruito in un impressionante set al centro di una grandissima radura verde per ricreare l’impressione di isolamento che era necessaria allo script (ed è poi stato in parte riprodotto anche in studio), ha una pianta ottagonale in cui ogni stanza ha almeno un’entrata e un’uscita separate, che la collegano agli spazi adiacenti. Questa scelta, che si rifà a teorie parapsicologiche di fine ‘700, permette una grande fluidità in termini di movimenti di macchina e montaggio ma anche – e soprattutto – di vedere quasi in ogni inquadratura gli ambienti circostanti, dando una costante percezione d’insieme dell’edificio ma al contempo differenziandone il piano inferiore dalla stanza del ‘creatore’. Un lavoro che parte da questa visione tanto ambiziosa e che da lì non fa che crescere, trasformando la casa in un luogo multiforme e continuamente irriconoscibile. Un peccato non aver premiato con un Oscar.
Miglior Film Straniero: Zama
Nonostante fosse stata preselezionata per rappresentare l’Argentina nella corsa agli Oscar 2018, questa ipnotica pellicola di Lucrecia Martel non è purtroppo riuscita a entrare in cinquina, mentre avrebbe addirittura meritato di vincere la statuetta. Zama è l’adattamento dell’omonimo romanzo di Antonio di Benedetto – considerato una delle opere più importanti della letteratura argentina – ed è un film assolutamente statico, allucinato e magnetico. La storia segue le vicende di Don Diego de Zama (un memorabile Daniel Giménez Cacho), ufficiale sud-americano della Corona Spagnola che nel XVIII secolo si ritrova bloccato in un Paraguay che detesta. La pellicola, raccontando l’eterna attesa di un trasferimento che non arriverà mai, è una metafora spietata della vacuità di certe esistenze, e si regge su una visione tanto creativa quanto anacronistica che fa del titolo un capolavoro dimenticato di un cinema ‘periferico’. Un’opera tanto lenta da essere inizialmente difficile da metabolizzare, ma capace di insediarsi nella mente dello spettatore senza lasciarlo più.
Miglior Attrice Non Protagonista: Michelle Pfeiffer (Madre!)
Il suo personaggio non ha un nome, eppure, nonostante il ridotto minutaggio in cui appare sullo schermo, Michelle Pfeiffer col suo carisma fagocita tutto. In Madre! di Aronofsky, l’attrice statunitense incarna una donna sicura di sé, tanto femminile quanto subdola, che accompagna ai modi gentili un’ostilità mal celata. Una performance che dimostra come con il passare degli anni la Pfeiffer non abbia fatto che crescere artisticamente, e che ci fa sognare di rivederla presto in ruoli ben più importanti. Intanto non ci sarebbe dispiaciuto saperla in corsa per gli Oscar 2018.
Miglior Film d’Animazione: Tehran Taboo
Presentato alla Semaine de la Critique di Cannes nel 2017, questo straordinario film d’animazione austro-tedesco di Ali Soozandeh racconta con una crudezza senza precedenti quattro storie tra disperazione, sesso e disparità di genere sotto il regime islamico repressivo e liberticida dell’Iran contemporaneo. In Tehran Taboo la prostituzione, i tabù, le piccole e grandi battaglie per l’indipendenza femminile, il sesso occasionale e gli inganni sono le tinte con cui Soozandeh dipinge una vivida e spietata denuncia sociale. Le vite dei protagonisti si incontrano in un crocevia in cui non sembra esserci redenzione per nessuno, in un film dal fortissimo valore politico, magnificamente realizzato con la tecnica del rotoscoping e che è incredibile non sia arrivato agli Oscar 2018.
Migliori Effetti Visivi: Spider-Man Homecoming
I migliori effetti speciali sono quelli di cui non ci accorgiamo, ed è proprio per la capacità di eccellere nel nascondere il proprio lavoro che la Imageworks avrebbe dovuto esser premiata per il lavoro fatto con Spider-Man: Homecoming. La quantità di scene che è stata interamente creata al computer per il film dello Spara-ragnatele è ben superiore a quanto si potrebbe credere (pur raggiungendo l’apice nello scontro finale) e il team guidato da Theo Bialek, nel garantire un’andatura naturale e leggermente goffa a Spider-Man, è stato tanto meticoloso che, quando la versione in CGI di Spidey venne presentata al regista Jon Watts e al protagonista Tom Holland, questi credettero si trattasse semplicemente di una precedente prova costume di Holland stesso. Un lavoro di altissima professionalità che avremmo voluto vedere riconosciuto agli Oscar 2018 almeno da una nomination.
Miglior Montaggio: Detroit
Detroit di Kathryn Bigelow è uno dei film più sottovalutati della scorsa stagione cinematografica. Girato con uno stile nervoso e dinamico, che ricorda le riprese amatoriali che spesso hanno testimoniato e denunciato i soprusi da parte della polizia statunitense nei confronti dei cittadini afroamericani, il film racconta le terribili violenze razziali avvenute nel Motel Algiers durante la rivolta di Detroit del 1967. Se la direzione della Bigelow e lo sguardo del direttore della fotografia Ackroyd sono fondamentali per costruire il linguaggio del film, non è assolutamente da meno il montaggio di William Goldenberg e Harry Yoon. L’alternarsi sempre più concitato dei tagli, indispensabile per rendere l’atmosfera frenetica di una notte da incubo, è un esempio impeccabile di quanto il lavoro in sala editing possa essere incisivo nel raccontare una storia. Per i due montatori però l’Academy non ha riservato nessun posto in cinquina.
Miglior Sceneggiatura Non Originale: Last Flag Flying
La sceneggiatura di Last Flag Flying, firmata a quattro mani da Richard Linklater e Darryl Ponicsan, è un adattamento dell’omonimo romanzo di Ponicsan e racconta di tre ex commilitoni che si incontrano dopo decenni a causa di una vicenda tragica, ma nella difficoltà riscoprono la propria amicizia. Lo script firmato dai due è un piccolo capolavoro di dramma e commedia (in modo non del tutto dissimile da quello scritto da McDonagh per Tre Manifesti a Ebbing, Missouri), e nel seguire il viaggio reale e metaforico di tre uomini costretti a confrontarsi con le proprie esistenze, ci regala anche un dettagliato ritratto del controverso rapporto degli Americani con il governo e le forze armate. Un film che apparentemente si rifiuta di dare un giudizio, ma che in realtà restituisce come pochi hanno saputo fare la grande complessità del legame di amore e odio che lega gli Statunitensi alla propria politica militarista, al di là di ogni retorica. Un sequel non ufficiale al film del 1973 L’Ultima Corvé, con Jack Nicholson, adattamento del romanzo The Last Detail di Ponicsan, di cui Last Flag Flying è a tutti gli effetti la prosecuzione. Ingiustamente snobbato.
Miglior Sceneggiatura Originale: The Killing Of A Sacred Deer
Lo script di Yorgos Lanthimos e del suo immancabile braccio destro Efthymis Filippou cita alla lontana (sin dal titolo) la tragedia euripidea Ifigenia In Aulide, ma la storia è così radicalmente diversa che non si può approcciare ad essa se non come a una sceneggiatura completamente originale. In The Killing of a Sacred Deer il geniale autore greco racconta la storia di un cardiologo (Colin Farrell) che intrattiene una strana frequentazione con un adolescente (Barry Keoghan). Sarà proprio questo rapporto a mettere in crisi l’esistenza del medico, in un modo del tutto imprevedibile e perfettamente coerente con la poetica di Lanthimos. Una sceneggiatura dallo straordinario valore simbolico ma anche capace (più delle precedenti firmate dal duo) di raggiungere, almeno su un piano superficiale, il grande pubblico. Un racconto perturbante e visionario, senza dubbio tra i meglio riusciti della scorsa annata cinematografica. Incedente l’assenza agli Oscar 2018.
Miglior Fotografia: A Ghost Story
Il direttore della fotografia Andrew Droz Palermo è pressoché uno sconosciuto, eppure il suo lavoro per A Ghost Story di David Lowery è ispirato e impeccabile. In un film che prende la classica immagine, tenera e ironica, del “fantasma sotto il lenzuolo” per trasformarla in un racconto drammatico e vagamente inquietante, le atmosfere sono tutto. Per questo il grande gusto compositivo, i colori caldi e gentili ma anche un aspect ratio infrequente accompagnato da una cornice ancor più inusuale sono fondamentali per trasformare le lunghissime inquadrature di Lowery in dei quadri animati che infesteranno l’immaginazione dello spettatore, così come il fantasma protagonista del film infesta la sua abitazione. Quando la fotografia è completamente al servizio della storia.
Miglior Colonna Sonora: A Ghost Story
Daniel Hart torna a collaborare con David Lowery dopo Il Drago Invisibile per la soundtrack di A Ghost Story, fornendo un commento musicale carico di emozione eppure disturbante ed evocativo. L’approccio di Hart alla composizione è evidentemente debitore alla vecchia scuola, in particolare a Philip Glass ma anche anche a John Williams, e le sue atmosfere rarefatte, evocative e malinconiche prendono forma – quasi suggerite e mai invadenti – da sonorità orchestrali che restano spesso sospese in una nota persistente o addirittura si arrestano in pause cui non segue una consueta risoluzione melodica, concedendosi raramente coloriture ultraterrene per mezzo di cori appena intuibili o di una soave voce lirica. Una tra le più belle colonne sonore degli ultimi anni, ingiustamente ignorata dall’Academy.
Miglior Canzone: I Get Overwhelmed (A Ghost Story)
È ancora Daniel Hart a tornare tra le nostre scelte musicali, questa volta con il suo gruppo Dark Rooms, con cui compone il meraviglioso brano I Get Overwhelmed, di grande importanza nella storia stessa di A Ghost Story. In questo caso Hart quasi abbandona le sonorità orchestrali e si affida a un sound elettronico i cui campioni sembrano ancor più metafisici dei già evocativi tappeti d’archi del resto della soundtrack, affidandosi poi al falsetto gentile della sua voce per cantare le liriche che in un gioco di specchi richiamano in modo distorto la storia del film. Una meravigliosa canzone sull’amore infelice, che unitamente a ogni altra componente della pellicola contribuisce a trascinare completamente lo spettatore nel mondo narrativo di Lowery.
Miglior Regia: Yorgos Lanthimos (The Killing Of A Sacred Deer)
Del Toro, Nolan, McDonagh, Aronofsky e via dicendo sono senza dubbio registi straordinari, ma la visione di The Killing Of A Sacred Deer non lascia dubbi: nel 2017 c’è stato un regista che più di ogni altro ha saputo portare la tecnica e la creatività registica su un piano in cui nessun altro è stato in grado di raggiungerlo, questi è Yorgos Lanthimos. L’autore di The Lobster e Kynodontas, che non aveva certo bisogno di conferme, decide di cambiare completamente il proprio approccio alla macchina da presa elevandolo a un linguaggio oltre il sublime, in cui l’occhio della camera scruta il mondo come una presenza infestante, che aleggia mistica tra i protagonisti e a volte se ne disinteressa, proseguendo oltre. La maestria di ogni singola scelta non ha mai la freddezza del virtuosismo ma anzi, come dovrebbe sempre essere, è completamente funzionale alle atmosfere suggerite dallo script e agli sviluppi della storia, rapendo lo spettatore in una sorta di ipnosi dal ritmo perfetto. L’assenza di Lanthimos dalla cinquina degli Oscar è il più ingiustificato e vergognoso errore dell’Academy nel 2018.
Miglior Attore Protagonista: Steve Carell (Last Flag Flying)
Larry ‘Doc’ Shepard è un uomo provato dalla vita in ogni modo, che non ha ragioni per andare avanti ma che fa un ultimo timido tentativo per trovare qualcosa a cui aggrapparsi in questo mondo. Non in molti avrebbero potuto portare sullo schermo un personaggio tanto intenso riuscendo però a non eccedere in alcun modo e, anzi, a conferirgli quell’aria dimessa e bonaria che lo script suggerisce. Proprio per questo l’interpretazione di Steve Carell in Last Flag Flying (forse la sua migliore di sempre) è un piccolo capolavoro di sconfinato talento e di rarissimo equilibrio, che con la sua capacità di suggerire gioia e dolore più che dimostrarli diventa la colonna portante dell’ultimo film di Richard Linklater. L’Academy ha già avuto modo di riconoscere a Carell le sue doti attoriali, certo, ma anche nel 2018 questo grande attore comico e drammatico meritava di essere nelle prime file al Dolby Theatre. Con questa pellicola Carell dimostra ancora una volta di essere uno dei più completi talenti sulla piazza e di saperlo fare lavorando per sottrazione, ed è una qualità da non sottovalutare.
Miglior Attrice Protagonista: Jennifer Lawrence (Madre!)
Con i suoi modi schietti e un po’ goffi, la pur bellissima Jennifer Lawrence ha trovato una strada tutta sua verso il divismo, facendo prevalere la spontaneità sul fascino composto e regale che tanto ricercano le sue colleghe. È proprio questa spontaneità ad essere il suo maggior punto di forza anche davanti alla macchina da presa, ed è questa dote ad esserle valsa un palmares che la rende una delle giovani interpreti più premiate del panorama Hollywoodiano. Se spesso ha prestato (anche con grande successo) il suo volto ai ruoli da ragazza della porta accanto, in Madre! di Darren Aronofsky è riuscita a mettere quel candore e quella incomparabile naturalezza al servizio di una storia agghiacciante, ritraendo in modo superlativo lo smarrimento di una ragazza piena d’amore e buoni intenti che viene trascinata in un incubo febbricitante sul quale non può avere alcun controllo. La performance della Lawrence (sulla quale raramente abbiamo il tempo di soffermarci, sollecitati come siamo dal turbinio di eventi che si susseguono sullo schermo) è di un’intensità rara, e permette allo spettatore di immedesimarsi pienamente negli occhi di una protagonista che – come lui – non può comprendere ma deve solo subire. In Madre! Jennifer Lawrence ha dato prova di aver raggiunto la maturità artistica e di saper dare un contributo di prima grandezza anche a pellicole molto distanti dal sicuro terreno su cui generalmente si muove; c’è da sperare che in futuro osi sempre di più, e che l’Academy sappia premiarla quando lo fa.
Miglior Film: The Killing Of A Sacred Deer
L’abbiamo già detto: la regia di Yorgos Lanthimos in The Killing Of A Sacred Deer è sovrumana. Quel che però non dobbiamo scordare è come ogni singolo elemento del suo ultimo film, presentato in concorso a Cannes 2017, concorra ad arricchire un’opera pressoché perfetta, che parte dalla vocazione ermetica e cinefila dei precedenti lavori per svilupparsi anche verso lo spettatore meno preparato ad approcciare al cinema arthouse. The Killing Of A Sacred Deer, vissuto a un livello superficiale, riesce infatti ad essere una sorta di inusuale horror psicologico che turba grazie al suo rifiutarsi di dare troppi punti di riferimento a chi guarda, mentre in realtà porta con sé una profondità allegorica che è perfettamente nel solco del surrealismo simbolista da cui Lanthimos proviene (e che è una vera mappa di navigazione per lo spettatore più esperto). La seconda opera americana del cineasta greco si distingue per regia e sceneggiatura, certo, ma le interpretazioni ipnotiche di Colin Farrel e del sorprendente Barry Keoghan danno un contributo altrettanto importante, mentre fotografia, musiche e montaggio non sono da meno. Una pagina di altissimo cinema, che non nasce certo per sedurre le masse ma di cui continueremo a parlare tra decenni.