Era il 1973 quando in Italia usciva Bisturi – La mafia bianca, un film di Luigi Zampa con Enrico Maria Salerno e Gabriele Ferzetti. Da allora cinema e TV si sono occupate di sanità attraverso stereotipi di medici e personale paramedico in prima linea, in strutture dove tutto funziona e dove i pazienti sono messi accuratamente al centro delle attenzioni. Bisognerà attendere il 2014, nel bel mezzo della grandi crisi degli anni 2010-2011, perché Thomas Lilti giri Ippocrate, un lungometraggio che in qualche modo ci riporta alla realtà, che il regista francese riassume attraverso una frase scritta nel muro di una cameretta dove dormono giovani medici appena usciti dall’università: “Il futuro dipende dai tuoi sogni, quindi non perdere tempo e vai a dormire”.
Ippocrate, che esce nelle sale italiane il 7 giugno grazie a Movies Inspired, arriva da noi dopo Il Medico di Campagna (2016), titolo di Lilti che pur essendo stato realizzato successivamente è già stato distribuito in Italia due anni fa. È forse proprio il buon riscontro raccolto dalla pellicola con François Cluzet ad aver convinto il distributore torinese a recuperare Ippocrate, opera che si è guadagnata ben 7 candidature ai César e che in comune con Il Medico di Campagna ha la componente autobiografica, visto che Thomas Lilti oltre che regista è anche medico di base in piena attività.
Quella proposta nel film è una visione a suo modo inquietante anche se (ma forse proprio per questo) la pellicola del regista francese non c’entra nulla con quella di Luigi Zampa. Qui il filmmaker italiano rappresentava la tentazione, il sopruso, l’inganno, la debolezza umana, il potere e il sistema stava sullo sfondo, in un contesto dove erano ancora presenti “anticorpi”, sebbene irrimediabilmente perdenti. Nel lavoro di Lilti, al contrario, il sistema è ormai diventato protagonista assoluto della scena nonostante che, paradossalmente, il dissenso passi da una sola voce a un “coro”.
Benjamin è un giovane medico tirocinante di un ospedale parigino, nel reparto di medicina generale dove il padre è primario. Il suo primo ingresso con la struttura ospedaliera non è esattamente quello che immaginava, a cominciare probabilmente dal simbolo del ruolo e del potere: il camice. Il suo è di qualche taglia più grande perché altri non ce ne sono e a nulla valgono le sue timide osservazioni quando si accorge che ha delle macchie, perché quel camice “è stato appena lavato, quindi sono macchie pulite”. Si accorge inoltre ben presto della carenza di personale, di strumenti e macchinari, del sovraffollamento dei pazienti, dei turni massacranti, dell’atteggiamento dei suoi colleghi che da una parte hanno coscienza dell’importante funzione cui sono chiamati ma dall’altra si accorgono di non avere i mezzi per svolgerla.
Una sorta di “schizofrenia” che lentamente scivola verso la rassegnazione. Benjamin fa amicizia con il suo collega algerino Abdel, il quale è più esperto e sicuro di lui e al quale si appoggerà rischiando anche di andare in rotta di collisione con il primario, suo padre. Ma la crisi economica morde e se il sistema non è in grado di dare risposte, l’unica cosa che può fare è proteggere se stesso, fino a definire “abusiva” la rianimazione di una paziente.
Tanti sono i temi portati in scena da Ippocrate e l’abilità di Thomas Lilti è quella di reggerli tutti insieme senza essere cattedratico, senza stereotipi e per quanto possa sembrare strano anche con leggerezza, la stessa leggerezza che probabilmente amplifica e rafforza i personaggi e la sceneggiatura. Il cast è assolutamente di livello, in particolare i due protagonisti Vincent Lacoste e Reda Kateb (qui vincitore del César come miglior attore non protagonista, noto come protagonista maschile di Les Beaux Jours d’Aranjuez di Wenders), a cui si aggiungono gli altrettanto convincenti Jacques Gamblin, Marianne Denicourt, Félix Moati, Carole Franck, Philippe Rebbot, Julie Brochen, Jeanne Cellard, Thierry Levaret, Rafik Ben Mebarek, Josée Laprun e Zohara Benali. Merito di Lilti anche quello di aver scelto una soluzione che, per quanto sia (e lo è) severa e girata tutta all’interno di un ospedale, confeziona un film in grado di essere apprezzato non solo dai profani, ma addirittura dagli ipocondriaci.