Writers Guild Italia e Anonima Cinefili hanno incontrato a Venezia Joachim Lafosse, sceneggiatore e regista belga che torna al Lido dopo il successo di Proprietà Privata (2006) per presentare alle Giornate degli Autori il suo nuovo film Continuer – Keep Going, dall’omonimo romanzo di Laurent Mauvignier.
Come lavora alla scrittura di un progetto?
Lavoro prima ad una sorta di trattamento e poi passo alla sceneggiatura. In realtà inizio con una scaletta, senza dialoghi, ma con le scene descritte in 4 righe. Poi se la scrittura dura un anno e mezzo, io lavoro al trattamento per un anno e tre mesi. Per me il trattamento è il 90% del lavoro. Del resto quando il trattamento è buono i dialoghi vengono naturali. Per i dialoghi io faccio sempre una ripassata finale lavorando con gli attori.
Ama maggiormente scrivere “in solitaria” o con altri sceneggiatori?
Io non riesco a lavorare da solo. Non scrivo mai solo perché penso ci sia di più in due teste che in una sola. È difficile lavorare e pensare da soli. Sarà perché sono del segno dei gemelli, ma non ce la faccio. E mi è successo spesso di scrivere insieme a persone che non avevano mai scritto per il cinema e io pensavo di avere delle qualità e delle cose da condividere con loro. Quel che dicevo loro era: i fatti, i fatti e i fatti. Nel senso che la sceneggiatura è composta dai fatti e dal personaggio (rispetto alla letteratura, il cinema segue i personaggi). Si seguono i personaggi e, una volta che il viaggio è buono, ecco che hai lo script. Il fatto è che non ci sono risposte ma solo domande. Questi sono un po’ i luoghi comuni degli sceneggiatori ma apprezzo l’esercizio di riassumere una sequenza, credo che quando riesci a riassumere una sequenza in tre righe allora ci sei, ce l’hai, vuol dire che hai la tenuta della scena.
Qualcuno sostiene che quando hai un buon personaggio è lui che ti conduce. Certe volte non si ha la storia ma si comincia dal personaggio, che ti guida fino alla fine.
Da parte mia, mi piace sapere dove vado. Quindi trovo che il personaggio comincia ad esistere o io inizio a farlo esistere, quando decido la fine, quando so fin dove lo devo condurre. Una volta trovata la destinazione, decido il percorso.
Cosa l’ha colpita del libro da cui è tratto il film? Che cosa ha lasciato o tolto?
Nell’adattamento ho tolto molto, ho semplificato, ho mantenuto solo due o tre cose principali per lasciare spazio a quel che fa il cinema. Per me quello che fa il cinema è il confronto con il reale. La letteratura è l’arte della libertà mentre il cinema non è per nulla l’arte della libertà, anzi è l’arte del limite. Quello che ho trovato complicato nell’adattamento sono stati soprattutto i rapporti con i co-finanziatori perché una volta letto il romanzo si erano fatti la loro idea della storia. Questo è il bello della letteratura, che lascia scrivere a te lettore, mentre il cinema lascia meno libertà allo spettatore, ti da delle cose da vedere; la letteratura ti fa immaginare, è una cosa molto diversa. Quindi quando si lavora a un adattamento e ci si confronta con i produttori, loro si aspettano il film che avevano già immaginato ed è complicato, questo accade a volte anche con gli attori.
“L’abitudine e la fissità degli atteggiamenti mentali ottundono i sensi e nascondono la vera natura delle cose” sostiene Chatwin. Dunque “il viaggio”, un contesto decisamente fuori dall’ordinario, può favorire una comunicazione impossibile nel quotidiano a suo avviso?
Si, ma non credo che il viaggio sia una questione fisica di chilometri. La psicoanalisi è un grande viaggio. Nel film l’ambientazione è una metafora del viaggio. Per questi personaggi c’è l’esigenza, a un certo punto delle loro vite, di vedersi in maniera diversa, immaginarsi diversamente e il viaggio favorisce ciò. Poi c’è anche un piacere da cineasta nel filmare un viaggio, proprio a livello fotografico. Ma già il termine “viaggio” è una parola molto potente; per esempio mi domando se nel film il personaggio femminile viaggi meno di quello maschile. Perché lei sa mentre lui è alla ricerca, come se fosse in viaggio costante: prima si innervosisce, poi si calma, poi si arrabbia di nuovo. Mentre lei cerca di meno. Poi è tutta una questione di punti di vista: uno dei produttori del film, una donna, mi ha detto che era contenta di aver fatto un lungometraggio che aveva un messaggio molto positivo ed edificante. E io non ho detto nulla ma pensavo che questa è la storia di una donna che rivela a suo figlio che non ha mai amato suo padre ma amava un altro e ha fatto un errore… io non lo trovo molto positivo. A volte i produttori sono inconsapevoli, non si rendono conto del motivo per cui producono un film ma in questo caso credo che avesse a che fare con la storia personale della produttrice, di cui non posso parlare ma che ovviamente ha visto quel che voleva vedere. Ma questo non mi crea problemi, finché non interferisce con il lavoro: è solo un altro punto di vista.
Accade a volte che i produttori non riescano a capire lo spirito del film. Ci sono molti aneddoti sulle richieste di cambiamenti assurdi alla sceneggiatura da parte loro. Non è mai facile. La WGI (Writers Guild Italia) ha un codice deontologico riassunto in 10 punti che tutti gli sceneggiatori devono condividere per far parte del nostro sindacato. È in sostanza un impegno a far valere i propri diritti, soprattutto con i produttori, e allo stesso tempo ad “osservare un comportamento ispirato a correttezza e lealtà nei confronti dei colleghi”. Concorda con questa filosofia?
Adesso dopo l’affare Weinstein… Non so, ho l’impressione che siamo dentro una grande fase di rimozione in cui, sia per gli uomini che per le donne, il cinema è il luogo dove si esprime al massimo il capitalismo e il liberismo e gli sceneggiatori ne sono le principali vittime. Il problema non è come viene vissuta la sessualità nel mondo del cinema ma il fatto che nel cinema il sesso sia legato al potere. Vorrei che gli uomini e le donne del cinema lottassero insieme, ovviamente perché ci sia spazio per le donne ma soprattutto per combattere le derive del potere che colpiscono sia uomini che donne, il problema sono le persone al potere nel mondo del cinema. Questo è l’unico mestiere per cui è necessario avere un agente, tutti hanno l’agente perché nel cinema la negoziazione è l’inizio della dominazione. Questo vale tanto per gli uomini quanto per le donne, c’è una lotta da fare contro questo dominio. Ridurre la questione del potere nel cinema alla sola questione del dominio degli uomini sulle donne non è sufficiente.
Secondo lei gli sceneggiatori sono pagati poco rispetto al valore economico che producono?
In un film il budget per la sceneggiatura è del 1%, malgrado la sceneggiatura sia lo strumento grazie al quale si riesce a realizzare il progetto. Un po’ come se i contadini, scusi il paragone, economicamente ottenessero solo 1% del valore finale. Gli agricoltori almeno vengono sostenuti dallo Stato perché altrimenti non ce la fanno.
WGI porta avanti delle battaglie per ottenere riconoscimento sia artistico culturale che economico. Ma anche in Italia la situazione è drammatica, spesso i produttori, con il pretesto del film indipendente, chiedono agli sceneggiatori di lavorare senza compenso o quasi.
Il produttore è colui che si assume un rischio, nel momento in cui uno sceneggiatore non viene pagato o è pagato poco diventa simbolicamente produttore del film, nel senso che si fa carico del rischio imprenditoriale.
(intervista a cura di Silvia Longo)