Giulio Base torna al Lido dopo 25 anni e lo fa con un progetto ambizioso e originale: stiamo parlando de Il Banchiere Anarchico, film presentato nella sezione Sconfini della 75. Mostra del Cinema di Venezia che si è aggiudicato il Premio Persefone 2018. Regista e per l’occasione anche attore, Base porta sul grande schermo l’omonimo romanzo di Fernando Pessoa, scritto nel 1922 e pubblicato su una rivista letteraria portoghese. Prodotto da Agnus Dei, il film uscirà nelle sale ad ottobre e affronta argomenti ancora oggi attualissimi (come la tirannia delle finzioni sociali e la plutocrazia). Abbiamo incontrato Giulio Base, che ci ha parlato del processo creativo legato alla sua ultima fatica ma non solo.
Ne Il Banchiere Anarchico, attraverso Pessoa, hai guardato in faccia il potere: quali conclusioni hai tratto?
Ho voluto raccontare la borghesia – o l’altissima borghesia, come in questo caso – con l’occhio critico proprio del cinema. Ho cercato di avere lo sguardo distaccato che può avere un entomologo verso gli insetti, e mi sono reso conto di quanto il denaro e il potere possano affascinare. Ho visto che determinate persone che vivono con questo potere seguono precisi codici, per i quali si riconoscono tra loro e al contempo ci escludono e ci fanno sentire impotenti. A certi livelli della grande finanza sembra che alcuni vogliano dire: “Lo dobbiamo fare noi, voi non potete capire”. E’ questo che più mi ha lasciato sgomento. Ho cercato di mettere in scena la fascinazione propria di questo potere; i ricchi non sono tutti brutti e cattivi.
Tra le tematiche del film troviamo la lotta di classe e la borghesia, che sono ancora oggi degli argomenti di grande attualità.
Penso che sia verissimo: è questa la grande qualità del testo, ciò che ha permesso di portare l’opera sul grande schermo dopo numerosi tentativi. Le banche e la finanza in passato non erano nelle prime pagine ma solo nelle pagine centrali di un quotidiano – e solo su due colonne – mentre oggi le notizie finanziarie sono spalmate su tutto il giornale e, spessissimo, la politica economica finisce in prima pagina. Pessoa capì prima degli altri che l’intreccio tra finanza e politica era indissolubile e sarà così in misura sempre maggiore: io non penso che la causa di questa crisi sia la finanza, penso che questa sia l’arma del delitto. L’assassino, se c’è, è la politica, che ha permesso alla finanza di corrompere e contaminare il sistema. Nel corso dei secoli c’è stata una finanza buona, invece ora ha voltato le spalle alle persone: c’è gente – mi riferisco ai banchieri – che guadagna se io fallisco, una contraddizione folle a mio avviso.
Hai detto che questo è il tuo film più intimo e più piccolo, perché?
Più intimo perché credo che ne Il Banchiere Anarchico ci sia tantissimo di me stesso: c’è tutta la mia più grande passione letteraria. E questo romanzo di Pessoa è in assoluto l’apice del mio amore per i libri, per lo scrittore portoghese ho avuto un adorazione sconfinata. È un racconto personale, basti pensare che all’inizio della mia carriera inventai anche uno pseudonimo dedicato a lui (Furio Schivo, ndr). Più piccolo invece perché avendo girato film con dietro grandi produzioni nella mia carriera, questo in confronto ha un budget decisamente più esiguo ma anche perché ho optato per un solo ambiente e due personaggi. Nella dicotomia pessoana nel piccolo c’è anche il macrocosmo: nel bianco e nero, negli ossimori che lasciano il segno.
Più che primi piani fisici, ti sei concentrato su primi piani ‘logici’: da cosa è dettata questa scelta?
Diciamo che mi sono concentrato sulla parola: la parola di questo racconto è una piramide di vertigine dialettica. E’ una cosa abbastanza inusuale e singolare nel cinema: io non ho voluto metterci solo la faccia ma ho cercato di far lievitare, dove possibile, il testo. Posso tranquillamente affermare che questa è stata la mia principale preoccupazione.