C’è una ristretta rosa di nomi che i direttori di eventi cinematografici vorrebbero avere ad ogni costo come ospiti nelle loro kermesse. Uno di questi è Cate Blanchett, che ha aperto la sezione “Incontri ravvicinati” della tredicesima Festa del cinema di Roma.
In effetti non appena l’attrice australiana entra in sala e inizia a rivolgersi al pubblico, si capisce subito che “incontri ravvicinati” è un titolo mai così azzeccato per una bellezza “marziana”. E non stiamo parlando (almeno non solo) dell’aspetto fisico, ma soprattutto di classe, intelligenza, magnetismo, carisma. Ad intervistarla Antonio Monda, il direttore che rinnova il suo mandato col RomaFF13, emozionato e soddisfatto. La Blanchett sarebbe dovuta arrivare a Roma già nel 2015 in occasione della proiezione di Truth – Il prezzo della verità di James Vanderbilt, ma dovette rinunciare per motivi familiari. “Poi – racconta Monda – la incontrai a Cannes (nel 2018 l’attrice è stata presidente del festival francese) e ci conoscemmo personalmente. Le rinnovai l’invito e accettò con queste parole: “Sarà un onore. Lo devo a te e a Roma”. Il pubblico non aveva bisogno di essere conquistato e se i cuori erano già caldi ora bruciano.
Premio Oscar nel 2005 come miglior attrice non protagonista in The Aviator di Martin Scorsese e nel 2014 come miglior attrice per Blue Jasmine di Woody Allen, l’attrice australiana ha al suo attivo oltre cinquanta film di successo, diretta da molti dei migliori registi al mondo: di Scorsese ed Allen si è già detto, ma anche, citando solo alcuni film, da Anthony Minghella (Il talento di Mr. Riplay, 1999), Sally Potter (L’uomo che pianse, 2000), Wes Anderson (Le avventure acquatiche di Steve Zissou, 2004), Alejandro Gonzàlez Inàrritu (Babel, 2006), Todd Haynes (Io non sono qui, 2007 e Carol del 2015), Steven Spielberg (Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, 2008), David Fincher (Il curioso caso di Benjamin Button, 2008), Ridley Scott (Robin Hood, 2010), Terence Malick (Knight of Cups, 2015). A Roma la sua ultima pellicola, Il mistero della casa del tempo, con la regia di Eli Roth, è presentato in concorso.
Cate Balchett inizia a raccontarsi, sollecitata dalle domande di Antonio Monda che ha immaginato un percorso ideale attraverso sei scene di altrettanti film dell’attrice proiettate sul grande schermo. Si comincia con Il curioso caso di Benjamin Button che serve ad entrambi a rompere il ghiaccio e a lei per sdrammatizzare: “Beh sì – dice sorridendo – in effetti è stato orribile essere romantica con Brad Pitt”.
E’ la volta di Carol, la pellicola che porta in scena l’amore tra due donne nella New York degli anni Cinquanta, dove accanto alla Blanchett troviamo una altrettanto strepitosa Rooney Mara. “La domanda ricorrente dopo questo film – spiega l’attrice – era sulla mia sessualità e trovavo davvero strano che dopo aver visto un lavoro così dirompente e con due figure femminili così cariche di umanità, di valori, di tormenti e di contraddizioni, tutte le attenzioni si rivolgessero sulla mia vita privata. Non c’entrava proprio nulla e non era questo il punto, ovviamente. Ho fatto questo film perché credo che ogni personaggio sia prima di tutto un essere umano. Per questo motivo non ho mai scelto di interpretare qualcuno perché lo sentivo affine. Penso invece che quando si vuole interpretare un ruolo è indispensabile avvicinarsi ad esso cercando di fare un’esperienza antropologica, una sorta di connessione universale da cui scaturisce quella vita. Anni prima avevo letto il romanzo di Patricia Highsmith, mi era piaciuto tantissimo e comunque sapevo cosa stavo facendo”.
Si passa quindi a Bandits, un film probabilmente meno conosciuto in Italia, ma che le permette di parlare anche del suo rapporto con il teatro. Una formazione teatrale solida, la sua, iniziata all’età di 25 anni a Sidney. “In effetti – argomenta l’attrice – è vero come si dice sempre che rispetto al cinema il teatro dà un rapporto con il pubblico più diretto e coinvolgente, ma soprattutto il palco è frutto di un lavoro di squadra. Il risultato è un prodotto dove ognuno deve fare alla perfezione la sua parte sia fuori che dietro le quinte e proprio in quel momento. Ed è questo l’aspetto che forse mi piace di più. Però – sdrammatizza di nuovo – il cinema è molto meno rischioso: se a teatro sbagli e stai lì un’ora ad annoiarti poi non ci torni più, se sbagli un film il pubblico ti dà sempre un’altra chance”. Sul grande schermo passa quindi la scena di Diario di uno scandalo (Richard Eyre, 2006) dove la Blanchett rifiuta e picchia l’anziana insegnante che le aveva dichiarato il suo amore, interpretata da Judi Dench. “Qui – rivela – mi sono trovata davvero in difficoltà. Dovevo usare una certa dose di violenza contro un’anziana signora, ma soprattutto contro Judi Dench, mostro sacro del cinema e donna deliziosa, di cui avevo soggezione. Alla fine sul set mi fecero vedere tutti gli accorgimenti che avevano preso ed in effetti Judi era così protetta che era impossibile farle del male. L’avevano corazzata come una tartaruga ninja. Così mi feci coraggio. Qualcuno poi – continua l’attrice – disse che il film in alcune parti non corrispondeva al romanzo. Succede spesso e io credo sia un bene perché non è detto che alla fedeltà al romanzo corrisponda la qualità di un film”. Concetto, questo, ripreso per certi versi dopo le immagini di Io non sono qui, la pellicola di Haynes in cui interpreta un giovane Bob Dylan. “Chi avrebbe mai pensato – riprende quindi la Blanchett – di assegnare questo ruolo ad una donna? Il viaggio che ho fatto attraverso questo personaggio, che poi in realtà non ho mai conosciuto, è stato entusiasmante ma soltanto pochi registi avrebbero pensato a questa soluzione”. Quello che però non dice è che il suo talento è tale da poterselo lei stessa permettere con assoluta credibilità. In effetti l’attrice australiana anche in seguito esibirà le sue doti “camaleontiche”, in particolare con Manifesto di Julian Rosefeldt in cui interpreta tredici diversi personaggi. Non è il suo film migliore, va detto, ma la sua bravura è indiscutibile.
Infine i suoi due Oscar: Blue Jasmine e The Aviator. Per il primo Cate Blanchett prende lo spunto per spiegare la sua idea di come si affronta l’interpretazione di un personaggio: “In realtà penso che quando si accetta una parte, da quel momento fino al ciak il corpo non deve essere pronto ad interpretare quel personaggio. Conoscerlo sì, ma non credo sia utile un approccio che assecondi quel filone di pensiero secondo il quale si comincia ad immedesimarsi e memorizzare con sé stessi toni, atteggiamenti e gesti per essere pronti. Al contrario, non arrivo mai sul set con queste premesse, che potrebbero anche crearti tensioni e aspettative non coincidenti con il taglio del film. E’ chiaro che c’è sempre un’idea di quello che si vuole fare ed è esattamente per questo che dò molta importanza alle prove informali prima di girare, perché ti permettono di compiere una sorta di viaggio a ritroso del corpo e liberati da preconcetti e visioni precostituite del ruolo”. Su The Aviator racconta invece l’aneddoto del suo primo contatto con Scorsese: “Un amico comune mi preannunciò una sua telefonata e quando avvenne non capii nulla di quello che diceva. Attaccato il telefono l’unica cosa che ricordavo era di avergli detto sì”. Da quel sì nacque fortunatamente il personaggio di Katharine Hepburn, altra sua memorabile interpretazione.