La storia della Bosnia-Erzegovina, paese che si dichiarò indipendente dall’allora Jugoslavia nel 1992, è stata caratterizzata da momenti di estrema violenza. La guerra civile, nel corso della quale venne anche attuato lo scempio di una ‘pulizia etnica’, ha lasciato cicatrici ancora visibili: si pensi che solo nel massacro di Srebrenica morirono oltre 8000 bosniaci di fede musulmana. Un passato così doloroso è difficile che non influisca sulla Bosnia di oggi: il regista Faruk Lončarević, con il suo lungometraggio in concorso al Trieste Film Festival 2021 So She Doesn’t Live (titolo originale Tako Da Ne Ostane Živa), prende come ispirazione un fatto di cronaca realmente accaduto per parlare non solo del suo popolo ma anche, più in generale, della bestialità dell’uomo.
SO SHE DOESN’T LIVE (TAKO DA NE OSTANE ŽIVA) METTE IN SCENA IL DRAMMA DEL FEMMINICIDIO
Aida (Aida Bukva) è una giovane donna che, dopo aver rotto con l’ex fidanzato violento Kerim (Dino Sarija), inizia una relazione con un uomo più grande. Dopo essere stato lasciato, Kerim cerca di distrarsi dalla perdita passando del tempo con l’amico Suad (Enes Kozličić) ma, incapace di dimenticare la compagna, la cercherà per riconciliarsi. Quando le cose non andranno nel modo previsto, la donna dovrà fare i conti con la furia omicida dei due amici.
LA MASCOLINITÁ TOSSICA E LA SOCIETÁ BOSNIACA SONO I TEMI CENTRALI DI SO SHE DOESN’T LIVE (TAKO DA NE OSTANE ŽIVA)
Opera girata in appena cinque giorni con un budget estremamente ridotto, So She Doesn’t Live (Tako Da Ne Ostane Živa) riflette sui legami troppo stretti. Non dando risposte definitive, il film porta avanti una tesi interessante, nella quale il percorso storico di un paese e una convivenza non sempre facile arrivano ad influenzare soprattutto i soggetti più borderline.
Faruk Lončarević, autore al suo terzo film, utilizza uno stile registico molto efficace per mettere in scena un racconto duro e spietato, che ricorda un certo cinema europeo senza compromessi (di cui uno dei principali esponenti è il provocatorio cineasta austriaco Ulrich Seidl): inquadrature fisse, tempi dilatati, assenza di musica e nessuna paura di scioccare il pubblico.
UNA DENUNCIA CHE PASSA PER LA VIOLENZA MOSTRATA
La prima parte della pellicola, nonostante la cura nella costruzione delle scene, può essere ostica per lo spettatore meno smaliziato (il lungometraggio è composto principalmente da lunghi piano-sequenza) ma nulla è lasciato al caso perché, nel momento in cui la violenza esplode in tutto il suo fragore, chi guarda rimane estremamente spiazzato.
Mostrare sullo schermo, in un film di finzione, un femminicidio senza nascondere l’efferatezza del gesto è una scelta che può far storcere il naso, tuttavia è indubbio che abbia una forza simbolica tale da costringerci a non rimanere indifferenti di fronte ad una piaga sociale drammaticamente diffusa.
Oltre all’intreccio, filologicamente coerente, tra la storia recente bosniaca e il delitto, uno degli argomenti analizzati dal lavoro di Lončarević è il maschilismo: la modalità con cui i due giovani uccidono la protagonista, senza provare alcun tipo di sentimento (quasi come se fossero degli automi, non degli uomini), è la conseguenza di una mentalità tossica, presente non solo in Bosnia ma tutto il mondo e difficile da sradicare.
So She Doesn’t Live (Tako Da Ne Ostane Živa) è l’esempio di come, malgrado i pochi mezzi a disposizione, siano le idee e una visione precisa di ciò che si vuole raccontare a permettere la riuscita di buoni film.