Durante il midshow dell’ultima edizione del Super Bowl, Netflix ha confermato (come se ce ne fosse bisogno) di avere la più innovativa strategia di marketing del vasto e segmentato settore dell’audiovisivo, annunciando a sorpresa l’immediata disponibilità in streaming di The Cloverfield Paradox, terzo capitolo del Cloververse e progetto che ha rischiato di vedersi addossata l’etichetta di film maledetto sin dal suo concepimento, quando il titolo provvisorio era ancora God Particel.
La gestazione del progetto, inizialmente scollegato dal franchise prodotto dalla Bad Robot di J.J. Abrams, è stata lunga e travagliata: annunciata inizialmente per il febbraio del 2017, la release era stata quindi spostata una prima volta al mese di ottobre dello stesso anno e successivamente ad aprile 2018 – scadenza poi smentita dall’annuncio in mondovisione del debutto sulla piattaforma di Los Gatos.
Come i suoi predecessori, The Cloverfield Paradox è un film che potrebbe camminare da solo, ed è legato ad essi solo da pochi distinguibili elementi. La storia – nel dettaglio della quale non ci addentreremo – segue le vicende di un team internazionale di scienziati che, a bordo di una stazione orbitante che ospita anche un acceleratore di particelle, conduce dei test che potrebbero garantire una fonte di energia pulita e illimitata alla terra.
Rispetto alle due precedenti pellicole, The Cloverfield Paradox risulta essere essere l’anello più debole di un progetto interessante che aveva fatto della sperimentazione e dell’ibridazione i suoi caratteri fondamentali: Cloverfield, il capostipite uscito nel 2007, era un Kaiju Movie atipico con elementi survival, caratterizzato dall’espediente registico del found footage; mentre il secondo capitolo, 10 Cloverfield Lane, era un ottimo thriller psicologico in cui la tematica di un’ipotetica invasione fungeva da raffinato macguffin per far detonare i contrasti tra i protagonisti.
The Cloverfield Paradox smette invece di giocare sulla sovrapposizione di generi e si adagia su uno script classico ma non altrettanto incisivo (messo a punto da Oren Uziel e Doug Jung di Star Trek: Beyond) che strizza non poco l’occhio a una filmografia sconfinata come quella spaziale, rubacchiando idee da pellicole come Punto di Non Ritorno (1997) o il più recente Life, aggiungendo qua e là alcuni spunti visti in Alien o in The Martian, difettando però di quella originalità di caratteristiche che tanto avevano stupito nei precedenti film. Nel suo insieme la pellicola funziona tutto sommato bene, senza però mai andare a fondo nei suoi seppur buoni intenti, e non reclamando quella dignità di autonomia che invece le precedenti pellicole del canone avevano dimostrato di meritarsi.
Le caratteristiche principali del genere ci sono tutte: una missione spaziale con compiti fondamentali per la sopravvivenza della specie umana, un imprevisto che mette i componenti davanti a delle difficoltà, degli eventi che trascendono lo scibile e innescano una gara alla sopravvivenza. Uno script classico per un film pulito, con poche sbavature e senza particolari guizzi; ben girato dal quasi esordiente nigeriano Julius Onah e interpretato da un cast di tutto rispetto, che comprende tra gli altri Gugu Mbatha-Raw (Black Mirror – San Junipero, La Bella e la Bestia), Daniel Brühl (Rush, Captain America: Civil War) ed Elizabeth Debicki (Guardiani della Galassia vol.2, Valerian).
Una pellicola di certo non memorabile e che però non merita l’impietosa accoglienza riservatale dalla critica al suo esordio; un lavoro che soffre dell’ingrato compito di dover reggere il paragone con i precedenti ingombranti titoli del Cloververse, in cui la mancanza di audacia nella scrittura e qualche incertezza di troppo nella messinscena stridono non poco con quanto di buono mostrato nelle pellicole precedenti, con cui comunque rivendica la parentela in uno dei suoi momenti più interessanti.