Quasi ci siamo: l’8 marzo, in coincidenza con la Giornata Internazionale della Donna, tornerà su Netflix per la seconda stagione Jessica Jones, la serie Marvel ispirata al personaggio creato nel 2001 da Brian Michael Bendis e Michael Gaydos.
L’antieroina, che già abbiamo rivisto nel team-up Marvel’s Defenders, torna finalmente a un format narrativo che le è più congeniale, con atmosfere da noir metropolitano che ben si sposano con un percorso narrativo che – almeno nella prima metà della stagione – indugia molto sul lavoro di investigatore privato, che sia quello della protagonista o di altri personaggi che fanno il loro debutto nella stagione.
IL PASSATO È UNA TERRA STRANIERA
Se il lavoro del detective privato è essenziale per lo show ideato per Netflix da Melissa Rosemberg, in questo ciclo per la Jones sembra esserlo anche un’indagine tutta personale (messa in realtà in moto dall’amica Trish) sul proprio passato. Nonostante infatti Jessica inizialmente sembri riluttante a far luce su eventi di cui non ha memoria, quasi spaventata («Il passato è passato, e deve rimanere dov’è»), sarà invece proprio questo percorso all’indietro ad avere un peso di rilievo in questi nuovi episodi.
Se i buchi di memoria di Jessica diventeranno il motore narrativo della stagione, in realtà sarà un altro buco a pesare più di ogni altro, e cioè quello lasciato nei primi episodi dall’assenza del meraviglioso personaggio di Kilgrave, vero fulcro della stagione di debutto. Se infatti in Jessica Jones 2 non manca la tematica della violenza di genere (più o meno subdola, più o meno evidente), ricominciare con una linea narrativa in diretta continuazione col personaggio di David Tennant (ucciso nel precedente season finale) avrebbe permesso agli sceneggiatori di fare ancora più prepotentemente leva sull’attualissima tematica delle molestie degli uomini sulle donne.
La minaccia che deve inizialmente affrontare la protagonista della serie, invece, è mentale solo nella misura in cui la si identifica con il tropo non originalissimo della sfida ai propri demoni, e diventa fisica – e quindi decisamente meno interessante – nel confronto con nuove forze antagoniste.
LA RITTER È UNA CONFERMA, MA LA SORPRESA È CARRIE-ANNE MOSS
Ancora non sappiamo cosa accadrà negli ultimi 5 episodi della stagione, e considerato che alla serie su Luke Cage sono bastati per tagliar completamente fuori il meraviglioso villain di Mahershala Ali, rimane la speranza che in questo caso ci sia un’evoluzione opposta.
Per ora la storia non è delle più appassionanti, ma Krysten Ritter rimane comunque un’interprete solidissima, e funzionano magnificamente le dinamiche con cui il personaggio interagisce con l’amica Patricia (Rachael Taylor) e con il vicino Malcom (Era Darville), ora una sorta di novello ‘Watson’ che l’aiuta nelle investigazioni. Assolutamente degno di menzione il trattamento riservato al personaggio di Jeri Hogart, che finalmente offre a Carrie-Anne Moss la possibilità di far brillare il proprio grande talento e che – soprattutto – conferma quale strada dovrebbero seguire le serie Netflix / Marvel: quella dell’aderenza al reale.
I momenti migliori di Jessica Jones 2 sono infatti quelli in cui quasi ci si scorda dei superpoteri e ci si dedica a un chiaroscuro in fase di scrittura che non ripercorra i soliti cliché della narrativa da fumetto. Così come Wilson Fisk e Frank Castle avevano segnato positivamente la prima e la seconda stagione di Daredevil, come Cottonmouth aveva affascinato in Luke Cage e – in misura minore – come Colleen Wing aveva offerto una sfumatura interessante al tutt’altro che riuscito Iron Fist, qui è soprattutto il ruolo della Moss ad avere un peso maggiore rispetto a quello che il suo minutaggio suggerirebbe.
LA LEZIONE IMPARATA DA DEXTER
I primi 5 episodi della nuova stagione di Jessica Jones sembrano a tratti mancare di un focus preciso, ma hanno successo nel restituire un personaggio che si evolve combattendo con la propria natura; continuamente divisa tra il richiamo di una verità nascosta e la propensione a rispondere alla nuova fama di “supereroina vigilante” con più alcol, più lavoro e più violenza.
La confezione registica (anch’essa tutta affidata al gentil sesso) rimane su livelli sempre più solidi di uno script con cui la Rosemberg non sembra sempre a proprio agio, e il superamento del capitolo Defenders sembra aver dato alla showrunner più libertà di quanta probabilmente non volesse gestirne (si pensi al terribile personaggio di Wheezer, accommpagnato da effetti sonori che stonerebbero anche in uno show di The CW). Le puntate scorrono comunque con un ottimo ritmo, tanto che sarà facile ritrovarsi a fare bingewatching nonostante la stagione sia piuttosto avara di cliffhanger.
L’essenza della stagione, e forse del personaggio stesso, è nella battuta che le viene rivolta nella seconda puntata (probabilmente la linea di copione più interessante di tutta la serie): «Super? Sei l’essere umano più debole che abbia mai incontrato». D’altronde, come ha dichiarato la showrunner: «Quel che ho imparato lavorando a un serial killer in Dexter è che puoi portare avanti il personaggio, ma non devi mai curarlo, o è finita.»