A dieci anni esatti da La classe, il regista e sceneggiatore Laurent Cantet (che questo film lo ha scritto con Robin Campillo) torna finalmente a raccontare il difficile contesto sociale della periferia francese, come quel capolavoro del 2008 che gli valse la Palma d’oro. L’atelier propone ancora una volta un gruppo di giovani, un adulto che cerca di farli discute su vari temi e un insieme di etnie che si incontrano, fra francesi razzisti, mediorientali e africani. Il risultato è però ben meno riuscito, tanto nel modo in cui approccia ai suoi protagonisti, quanto nella ricerca di idee da proporre sullo schermo.
L’atelier racconta di un incontro fra una importante scrittrice parigina di gialli (Marina Fois) e un gruppo di giovani di una città periferica del sud della Francia: La Ciotat. Importante porto navale nella metà degli anni ’70, oggi quel comune è diventato un centro destinato quasi esclusivamente al mantenimento e alla costruzione di lussuosi yacht. Durante l’estate il gruppo di giovani dovrà scrivere insieme all’autrice un romanzo che abbia come ambientazione proprio la città dove sono cresciuti. Fra di loro spicca Antoine, un giovane creativo e capace nella scrittura, nonché vicino all’estrema destra razzista e affascinato dalla violenza.
CANTET TORNA A RITRARRE I GIOVANI
È chiaro, arrivati a questo punto, che Laurent Cantet non si sia ancora ripreso dalla ‘sbornia’ de La classe. I postumi del successo sono stati infatti fatali per il regista francese: film come Ritorno a L’Avana o Foxfire – Ragazze cattive sono passati in sordina, sia come successo critico che come successo di pubblico.
Con L’atelier sembrava che la poetica di Cantet potesse tornare ai grandi fasti, fra i banchi di scuola e le divergenze che un paese eterogeneo come la Francia contiene in sé. Invece lascia sbalorditi la pochezza con cui racconta i giovani, talmente anacronistica da risultare a tratti ridicola.
Il giovane Antoine (interpretato dal bravissimo esordiente Matthieu Lucci) viene raccontato come un simpatizzante di estrema destra, un neo-fascista e ultra razzista, mentre all’atto pratico non è nulla di tutto ciò. Per evidenziare la sua passione per le armi e l’esercito, Laurent Cantet lo inquadra diverse volte mentre gioca a degli sparatutto (un genere videoludico che comprende giochi come Call of duty o Battefield, simulazioni di battaglie con armi da fuoco) o a dei videogiochi ‘violenti’ come Street Fighter. Una lettura che risultava vecchia già ai tempi di Elephant di Gus Van Sant.
Sembra quasi che all’interno del film esista una profonda frattura: da una parte una sceneggiatura fallimentare che cerca di raccontare la malvagità e la pericolosità di Antoine, mentre dall’altra troviamo un giovane ragazzo di vent’anni, invaghitosi di una donna più vecchia (l’insegnante) e intento a cercare dei mezzi per conquistarla.
DEI GRANDI ATTORI NON SEMPRE BASTANO
La classe era un film incredibile perché riusciva a tenere incollato lo spettatore soltanto tramite i dibattiti a lezione, facendo uso solamente delle parole e del montaggio sensazionale di Robin Campillo. Si aveva la sensazione, insomma, di trovarsi davanti ad una sceneggiatura che aveva inquadrato i problemi di una generazione e aveva proposto, tramite l’insegnamento, una maniera per risolverli. Ne L’atelier invece sono spesso noiosi persino le discussioni: ripetitive attorno al concetto di terrorismo e di battaglia operaia degli anni ’70.
Ciò che si salva è invece il lavoro ‘puramente’ da regista di Laurent Cantet. Egli è capace, come i grandi artisti del neorealismo, di tirare fuori il meglio da un gruppo di attori non professionisti. Quando recitano, i giovani sono spontanei e non sentono il peso della telecamera che li riprende. In questo senso ricorda il Kechiche delle feste e delle manifestazioni de La vita di Adele, nelle quali scene sembrava che ognuno dei personaggi stesse vivendo quelle situazioni nella sua quotidianità.
Sarebbe stato meglio costruire il film intorno ai giovani attori, piuttosto che forzarli in discorsi e riflessioni attorno a generazioni che a loro sono ormai lontanissime. L’atelier risulta infatti forzato e schematico, imperniato com’è attorno ad un personaggio sterile e monodimensionale come quello della scrittrice, “borghese” parigina che sterilmente ripete di voler aiutare dei giovani sfortunati. Un brutto passo indietro per Lauren Cantet, ancora, dopo dieci anni, incapace di ritrovare la sua poetica.