Chissà se nel 1995 al regista francese Mathieu Kassovitz passò mai per la mente che il suo secondo lungometraggio avrebbe avuto la forza di arrivare fino ad oggi con quell’aura di immortalità che siamo soliti riconoscere nei capolavori. L’Odio (disponibile in DVD e blu-ray grazie a Raro Video e CG Entertainment), sia per la sua capacità di ispirare una certa tipologia di cinema politico ma anche per aver profetizzato le violente rivolte sociali nelle banlieue francesi, rappresenta un punto di non ritorno che sembra non aver mai smesso di raccontare le realtà sociali della contemporaneità attraverso un’esperienza cinematografica ancora oggi innovativa per messa in scena, elementi narrativi e riflessioni sociologiche.
LA CRONACA INTRECCIATA ALLA FICTION
Interpretato da Hubert Koundé, Saïd Taghmaoui e Vincent Cassel, il film racconta diciannove ore nella vita di tre giovani adulti che abitano in una multietnica e degradata periferia parigina. Non parliamo di tre ragazzi a caso: Vinz è un ebreo dell’est, Saïd è arabo e Hubert è un nordafricano immigrato di seconda generazione. I tre personaggi sono la rappresentazione di un mix di etnie, origini e culture diventato ormai un tratto distintivo della società francese. Era la prima volta che sul grande schermo veniva rappresentato in modo trasparente e senza filtri quel melting pot che i francesi chiamavano “branleurs” (e che da lì a poco avrebbero portato la Francia alla vittoria nella Coppa del Mondo del 1998). Questo aggancio alla realtà dei tempi è visibile fin dalle prime immagini del lungometraggio: Kassovitz decide di iniziare L’Odio con alcuni filmati di repertorio delle rivolte urbane nelle periferie francesi che mettono in scena le storie vere di ragazzi come Makome M’Bowole e Malik Oussekine, vittime della brutalità della polizia (vicende che hanno ispirato il regista nella stesura della sceneggiatura). Proprio quello sguardo sulla Francia di inizio anni ‘90 sarebbe balzato più tardi alle cronache come il racconto che più di tutti aveva saputo descrivere la realtà delle periferie dell’area metropolitana di Parigi: una bolla sociale che da lì a poco sarebbe esplosa in una rivolta senza precedenti dai tempi del maggio francese. Eppure, nonostante questo, L’Odio è un affresco universale, che va ben oltre il particolare contesto in cui prende vita, perché Kassovitz raduna sotto il suo sguardo tanti temi che convergono nella stessa necessità: quella di dare voce a coloro che sono stati messi a tacere. La mancanza di ascolto e di rappresentanza è una questione tornata oggi di estrema attualità in un’Europa ostaggio delle forze sovraniste e populiste, come se L’Odio avesse anticipato di ventitré anni domande che sembrano ai nostri giorni essere diventate vere e proprie criticità.
L’UTILIZZO DELLA DUALITÀ: GIORNO E NOTTE, CENTRO E PERIFERIA
L’incontro fra cronaca sociale e fantasia riflette altre due importanti dualità simbiotiche che sono evidenziate nel film: la prima metà della pellicola è ambientata nella banlieue in pieno giorno; la seconda parte ci porta invece nel centro cosmopolita di Parigi nelle ore notturne. Kassovitz mette in scena le due parti in modo totalmente differente: in periferia opta per riprese a lunga distanza accompagnate spesso da piani sequenza per accentuare una vicinanza “morbida” e familiare con personaggi che si muovono a loro agio in uno spazio confortevole e in un contesto sociale in cui la comunità trasmette sicurezza. Al contrario, nelle scene girate nel centro cittadino di Parigi, il trio protagonista sembra essere spaesato: con l’aiuto dell’oscurità della notte il cineasta francese sceglie piani ravvicinati e ciak brevissimi dove prevale il fuori-campo, il non visto, il non calcolato. L’estetica diventa angosciante, compulsiva, imprevedibile: ogni angolo della città diventa una possibile minaccia in un mondo alieno ed ostile. Il cortocircuito fra centro e periferia, tra integrazione e marginalità, tra privilegiati e senza voce diventa totale.
LA CULTURA POP COME ELEMENTO DI SOVVERSIONE
Ma questo non è l’unico conflitto all’interno della pellicola. In una potentissima sequenza aerea ascoltiamo la canzone che un DJ suona alla sua finestra: è un mashup tra Nique La Police di NTM e Non, Je Ne Regrette Rien di Edith Piaf. Il regista sceglie (e lo fa spesso in diverse parti del film) di prendere in prestito frammenti della cultura pop per masticarli e restituirli come simboli di incomunicabilità fra genitori e figli: il divario non è solo etnico dunque ma anche generazionale. Ecco allora che L’Odio sforna una serie di riferimenti espliciti, che sia una scena di Taxi Driver di Scorsese scimmiottata allo specchio da Vinz o che sia il ricordo delle gesta di MacGyver durante il furto di un’automobile. Osteggiati dallo Stato, trascurati dalle loro famiglie, sradicati dalle loro tradizioni e culture di origine i ragazzi de L’Odio hanno solo gli echi del cinema, della televisione e dei fumetti come unici punti di riferimento per trasmettere il loro disagio sociale ed esistenziale. Su tutti però è Vinz il sottoprodotto più paradigmatico e a tratti pericoloso di questa educazione per immaginari: la sua imitazione delle stelle del cinema coincide anche con una visione violenta e criminale della società. Per lui la “cultura della pistola” rischia di diventare l’unico sfogo possibile al suo malessere e alla sua rabbia repressa.
L’USO DEL SURREALISMO PER COMPRENDERE LA REALTÀ
Nella sua ricerca costante di riferimenti alla cronaca e alla cultura pop L’Odio sorprende per una narrazione che sa anche essere dialettica: accanto alla rappresentazione della realtà Kassovitz oppone elementi surreali e bizzarri per complicare ulteriormente il significato della storia, raccontandola attraverso angolature diverse smussando l’impatto del comprensibile con quello che immediatamente comprensibile non è. Come ad esempio nella scena dal sapore onirico in cui Vinz vede (o pensa di vedere) una mucca in mezzo alle abitazioni popolari oppure quando sulle facciate di due edifici il regista ci fa vedere le gigantografie dei visi di Rimbaud e Baudelaire, in asincronia fortissima con il contesto circostante. O, ancora, nel dialogo fra i tre protagonisti e un anziano signore che avviene nei bagni pubblici: un frammento improvviso e quasi randomico che narra una vicenda tanto grottesca quanto terribile, quella di un deportato che muore congelato per aver perso un treno (e con i calzoni abbassati). È un modo per Kassovitz di parlare ai tre ragazzi ma più in generale ai giovani delle banlieue: bisogna saper gestire paura ed emozione, pudore e orgoglio per evitare che la vicenda di un’intera generazione, a tratti spensierata, si trasformi in un dramma umano senza più via d’uscita.
IL COLPO ALLO STOMACO SFERRATO DAL FINALE
seguono spoiler
Insomma, con lo stesso spirito di autori come Spike Lee, Kassovitz sviluppa la trama non necessariamente in maniera chiara e chiarificatrice: non dà risposte agli spettatori ma, piuttosto, cerca di coinvolgerli nel porsi delle domande. Fino ad arrivare al finale: quando la bomba ad orologeria innescata all’inizio – che lentamente ticchetta per tutta la durata del film – finisce per esplodere. L’ultima sequenza è memorabile per l’uso dello spazio, dei movimenti di macchina, per il cambio di ritmo che incede senza pietà. Se Vinz rinuncia alla sue fantasie da gangster e si arrende, consegnando la pistola al più responsabile Hubert, un poliziotto in cerca di vendetta lo ferma bloccandolo contro una macchina. Un colpo di pistola esploso per errore congela il frame: Hubert arriva sulla scena e tira fuori l’arma contro il poliziotto, in uno stallo angosciante ed interminabile. Lo schermo diventa improvvisamente nero e subito dopo echeggia un altro colpo di pistola: non sapremo mai chi vive o chi muore. Kassovitz realizza un finale aperto dove buoni e cattivi, eroi ed antieroi, si confondono e si sovrappongono.
Forse, sopra ogni cosa, è proprio la società francese che preme il grilletto e tutti, nessuno escluso, sono colpevoli allo stesso modo. Con questo finale L’Odio consegna alla storia del cinema l’istantanea di una collettività allo sbando, che sta precipitando senza reti di protezione. Dopotutto “il problema non è la caduta, ma l’atterraggio” e a ventitré anni di distanza non ci pare di essere ancora atterrati: la caduta continua.