Intramontabile: come il Viaggio, come la Memoria. E non è certo un caso che il Trieste Film Festival 2021, nel giorno della sua conclusione, abbia deciso di proiettare Lo Sguardo di Ulisse (To Vlemma Tou Odyssea), film del 1995 vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria e del Premio FIPRESCI al Festival di Cannes. Già, perché l’opera del pluripremiato maestro del cinema greco Theodoros Angelopoulos è, anche solo pro forma, un memoriale vero e proprio. Memoriale a Gian Maria Volonté, che vi trovò la morte durante le riprese e venne sostituito sul set da Erland Josephson; ma anche – col senno di poi – memoriale ad Angelopoulos stesso, che il 24 gennaio del 2012 ha smesso di vivere, dopo un tragico incidente; e, ancora, memoriale lungo la scia di quella Giornata della Memoria che coinvolge, a buon diritto e a rigoroso dovere, anche il complesso territorio dei Balcani, straripante di atroci peripezie e di inenarrabili morti – territorio la cui essenza il film ritrae dal profondo.
LO SGUARDO DI ULISSE DI THEO ANGELOPOULOS: IL VIAGGIO E LA MEMORIA
Lo Sguardo di Ulisse (To Vlemma Tou Odyssea) è un grande contenitore di Memoria, dunque, che l’opera condensa e rilancia nel linguaggio filmico. Ma non solo formalmente. No – poiché lungo il sottilissimo ma ferreo filo della Memoria e del Viaggio si muove, dal di dentro, il film stesso. Il quale tematizza proprio un viaggio, quello del protagonista, regista esiliato che ha il volto di Harvey Keitel e che vaga in cerca di tre bobine dei fratelli Manakis (gli iniziatori del cinema greco/macedone) lungo tutto il territorio balcanico: in cerca della Memoria stessa, affidata ai nastri filmici dispersi, che qui fungono da fili della testimonianza storica a mo’ del cineocchio vertoviano.
Un lungo viaggio che rasenta il metafisico, quindi: un protagonista che, di confine in confine (e il Confine è l’antagonista privilegiato di tutta l’opera, nonché di ogni vera Memoria), di Paese in Paese, di figura in figura, di mezzo in mezzo di trasporto, ricerca. Ricerca le bobine dei Manakis, ricerca la storia, ricerca un senso che non sia universale, ma testimoniale. Ricerca il germe primario della testimonianza, che, sola, restituisce ad una collettività la sua identità e la sua forza – in questo caso alla collettività balcanica.
Alla collettività di quel popolo dalle vicissitudini complicate, di quel popolo che come forse nessun altro rappresenta l’emblema e la brutalità del Confine, come idea aggressiva prima ancora che come fatto di sangue. E, ancor più nello specifico, una testimonianza di cui il Cinema come arte, ovvero come (arte) politica, è sommo depositario.
ANGELOPOULOS E QUEI BALCANI OLTRE LA FRONTIERA DELL’ANIMA
Da Skopje a Bucarest, da Sophia ad Atene, da Belgrado a Filippopoli, quel coacervo di delicatissima (e, per certi versi, ancora non digerita e finanche indigesta) storia che sono i Balcani, diventano così il condensato del Mondo, il gomitolo interno del Cerchio sul quale il cineocchio punta il suo obiettivo, tentando di riscattarne il non detto. Provando a riprenderne e svelarne la complessità tutta peculiare. Impresa, del resto, che il regista di Lo Sguardo di Ulisse (To Vlemma Tou Odyssea) Angelopoulos ha condotto nel corso di decenni nella sua opera.
Qui, il cinema è niente più e niente meno che quel crinale (al limite della tautologia) di cui parla Platone nella citazione per nulla casualmente posta in esergo del film, tratta dall’Alcibiade: “E se l’Anima deve conoscere se stessa, essa deve rivolgere lo Sguardo all’Anima stessa”. Tautologia solo apparente – in realtà movimento complesso, movimento della ri-voluzione dello Sguardo che, nel ri-volgersi, si fa testimonianza; Memoria, appunto. E allora, quei Balcani di cui i Manakis hanno condensato l’essenza vitale più di un secolo fa, non sono più un territorio circoscritto, confinato (“border” è termine ricorrente, nel film) – tutt’altro: essi diventano il territorio stesso, l’Anima sconfinata che abbatte la frontiera in sé, in luogo di un’universalità da testimoniare. E il testimone, come la Memoria insegna, racchiude passato, presente e futuro, al di là di ogni confine – di ogni confinamento.
IL CONFINE COME RAPPORTO CON IL POTERE
Ecco, dunque, che il confine si sgretola nel Viaggio del protagonista di Lo Sguardo di Ulisse (To Vlemma Tou Odyssea) – e questo sgretolamento diventa uno specifico memento politico da parte di Angelopoulos. Si fa monito, urlo disperato che, constatando la (testimoniando della) atrocità storica, ricerca nella vera essenza del comunismo un oltre del comunismo storico stesso: un oltre di ogni confine, una vera Comunità.
Di continuo, il protagonista si imbatte in qualche frontiera, in qualche confine. Continuamente il Potere gli chiede il passaporto, magari ne contesta la validità (perché il Potere può, almeno in apparenza e specialmente se è un Potere militare, contestare qualsiasi cosa). Ma sempre, puntualmente, lui li supera – sempre ne rivela la mera fantasmagoria, la stupida (per quanto terribile) inconsistenza.
Il Viaggio, come il Cerchio, del resto, non conosce confini. O meglio: ne testimonia, per travalicarli necessariamente. “Dio ha creato dapprima il Viaggio. Poi, solo poi, sono venuti il dolore e la nostalgia…”, recita uno dei tanti personaggi-compagni che il Regista incontra nel suo itinerario-Cerchio. Viaggio, Cerchio, Memoria: qui, nel suggellarsi dei tre, il finito incontra l’infinito. Qui, quel Cerchio viaggiante che è la bobina (ogni bobina), assurge a luogo della Memoria, a testimonianza assoluta – nel senso di sciolta da ogni vincolo. Libera. E consegna a quello Sguardo, a quel Gaze, a quel Βλέμμα, che informa il titolo dell’opera, la sua missione. Precisamente quanto Angelopoulos, assieme al suo Protagonista itinerante, cerca e ricerca, prende e riprende.
LO SGUARDO DI ULISSE E IL VERO SENSO DELLA RICERCA
Quella dello Sguardo (del cinema) è quindi un’operazione complessa, ri-voluzionaria: così come estremamente complesso è Lo Sguardo di Ulisse (To Vlemma Tou Odyssea), che meriterebbe un commento puntuale, sequenza per sequenza (quando non scena per scena). Ma: le trova o no il regista, alla fine, le tre bobine?
Sì. Le trova in una Sarajevo (tappa “finale”, ma in realtà iniziale del suo Cerchio) semi-desertificata, martoriata dalla crudeltà della guerra, la cui visione è riempita solo dal grigiore totale, dalla biancore diafano della nebbia, dalle fiamme delle rovine incendiate – il cui silenzio roboante si espleta in un continuum di bombe che esplodono. Una rovina a cielo aperto. Le trova, le bobine, custodite clandestinamente da un ebreo archivista, una specie di guardiano del Cinema. Tra Welles, Dreyer, Lang, il custode ha conservato nelle sue stanze sotterranee le bobine dei Manakis, e riesce a trovare la formula chimica per proiettarne i negativi. “Devi aspettare solo qualche ora perché si asciughino”, dice al Regista, “poi potrai vederle”. Ma la domanda è: è importante, che il protagonista le trovi?
Assolutamente no. Primo, perché non sappiamo se infine egli le veda, le proietti o meno. Secondo, perché non è il loro contenuto (che resta sconosciuto) o il loro rinvenimento che dà al Regista il senso del suo Viaggio. No. Perché ormai, moderno Ulisse, egli sa bene che non è lì, bell’e pronto da gustare, che risiede il senso del suo itinerario – dove, come in ogni Cerchio, la fine coincide con l’inizio e viceversa. Egli sa che lo Sguardo abbraccia, attraverso la sua κίνησις (Cinema), il suo movimento di ri-voluzione, la testimonianza tout court. Di qui il suo monologo finale, intervallato solo dal rumore del movimento di una bobina che ruota incessante, davanti a uno schermo bianco (sarà una bobina dei Manakis? L’avrà vista? Sarà riuscito a proiettarla? Non conta): «Quando tornerò, sarà nelle vesti di un altro uomo – col nome di un altro uomo», dice in lacrime, alzando lo Sguardo verso la camera come in preda a un’estasi epifanica. «Se mi guarderai, non credendomi, dirai: ‘non sei tu, qui’. Allora ti indicherò dei segnali, e mi crederai. Ti racconterò dell’albero di limoni nel tuo giardino. Della fredda finestra da cui traluce la Luna. E poi, i segni del corpo. I segni dell’Amore. E mentre ci arrampicheremo, tremanti, verso la nostra vecchia stanza, tra un abbraccio e l’altro, tra richiami d’amore, allora io ti narrerò del Viaggio. Per tutta la notte, e per tutte le notti a venire: tra un abbraccio e l’altro, tra richiami d’amore. Ti narrerò dell’intera avventura dell’essere umano. Della Storia che non finirà mai.».
Esattamente come per l’Ulisse dell’Odissea, tornare è andare – e andare è, in qualche modo, tornare. Non c’è Viaggio senza quest’infinito, senza questo non-finire. Senza questa “Storia [la nostra] che non finisce mai”. Se non, come recita uno slogan del Trieste Film Festival, di cui questo film è in pieno depositario e portavoce, «quando l’est incontra l’ovest». E il Confine, senza più distruggere e separare, può allora solo costruire e unire.