Il camminare come metafora della salvezza e della giustizia, del ricostruire e del ricostruirsi dalle macerie esterne e interne. Father (Otac il titolo originale), film del regista serbo Srdan Golubovic in concorso al Trieste Film Festival 2021, mette in scena un dramma sociale il cui riferimento non può non portare per associazione alla filmografia di Ken Loach. Tuttavia la pellicola di Golubovic trova una strada tutta sua e brilla di luce propria.
FATHER (OTAC), UNA STORIA DI DETERMINAZIONE IN UNA SERBIA SENZA SPERANZA
La storia di Father (Otac), vincitore nella sezione Panorama della Berlinale del Premio della Giuria Ecumenica e del Premio del Pubblico, è ambientata in Serbia, dove una gestione politica a dir poco cinica degli ultimi governi ha prodotto un impoverimento economico generalizzato, con tassi di disoccupazione vertiginosi, e di conseguenza una lacerazione sociale e familiare. In questo contesto a Grab, un villaggio a 300 chilometri dalla capitale, anche la famiglia di Nikola, licenziato dalla fabbrica e costretto a fare lavori saltuari, deve fare i conti con le difficoltà quotidiane per dare da mangiare ai due figli, un ragazzo e una bimba.
Così la moglie Biljana, presa dalla disperazione, si reca davanti alla fabbrica dove lavorava il marito e, con la minaccia di darsi fuoco insieme ai figli, protesta perché vengano pagati a Nikola i suoi stipendi arretrati. Da qui inizierà per tutti un calvario che condurrà lei al ricovero coatto, i due figli ad essere affidati ad altra famiglia dai servizi sociali e Nikola a intraprendere un lungo cammino, non solo burocratico, per riprenderseli.
IL PADRE DI FATHER (OTAC) E QUEI 300 KM A PIEDI
Il regista ha preso lo spunto per Father (Otac) da una reale vicenda di cronaca riportata dai giornali serbi: quella di un uomo che, dopo aver percorso trecento chilometri a piedi, ha stazionato per giorni sotto il ministero, a Belgrado, per protestare contro l’affido dei suoi figli ad un’altra famiglia, fino a quando non è stato ricevuto dal ministro. La pellicola è divisa in tre parti: nella prima, Golubovic non si discosta dalla cronaca reale, ma poi pian piano la potenza delle immagini prende il sopravvento in un crescendo di emozioni, un turbine di rabbia, indignazione e grande empatia verso i protagonisti; empatia alla quale del resto non si sottraggono sia la sceneggiatura che la regia le quali, entrambe, dichiarano ben presto da che parte si schierino. Ed è così, ad esempio, che la determinazione di Nikola nel voler riprendersi i suoi figli non cede neanche davanti a chi lo mette in guardia che “non vale la pena lottare per la famiglia perché presto ti deluderà”.
Allo stesso modo, anche dal punto di vista tecnico, nella prima parte è ravvisabile lo stile loachiano, mentre nella seconda e terza il cineasta serbo prende il largo e nuota in mare aperto, marcando nettamente un suo stile. Allo stesso modo dei Dardenne invece, in Father (Otac) la telecamera è incollata al personaggio principale per buona parte del film, ma anche in questo caso, il regista si avvale dell’efficacia delle immagini per descrivere un paese allo sbando, in cui la lotta quotidiana per sopravvivere fa da contrappunto ai privilegi di pochi, alla corruzione della classe dirigente e alla sopraffazione dei più deboli.
FATHER (OTAC) È UN FILM APPASSIONANTE E GIRATO CON GRANDE CURA
L’eccellenza del girato di Golubovic risiede principalmente nella capacità di mantenere la tensione emotiva sempre molto alta nonostante la descrizione minuziosa della storia, ma anche nell’originalità di alcune scene. In particolare le sequenze di Nikola che va a riprendersi le sue cose dai vicini, casa per casa, contrapponendo la leggerezza al dramma, sono assolutamente fantastiche.
Sul versante attoriale, un gran bel cast supporta la pellicola dall’inizio alla fine, con Goran Bogdan che interpreta il suo personaggio, Nikola, senza cedimenti. Vincitore del premio della giuria e del pubblico alla Berlinale, Otac è un film amaro (“la povertà è anche una forma di violenza contro i bambini”) che lascia tuttavia aperto uno spiraglio alla speranza. Forse perché i 300 chilometri a piedi percorsi da Nikola per combattere l’ingiustizia rappresentano, usando le parole del regista, un atto rivoluzionario.