Dopo aver perso le guerre, nell’ordine in Corea, Vietnam, Libano, Iraq, Afghanistan, ancora Iraq, Siria e di nuovo Iraq, il Pentagono non sa più cosa fare e convoca Michael Moore per un consulto. Il regista statunitense si offre come invasore di altri paesi ma con tre regole ben precise: non usare armi, non cercare il petrolio e portare a casa qualche buona idea da adottare anche in America. Iniziano così, bandiera a stelle e strisce in spalla, le ‘invasioni’ di Where to invade next, l’ultimo film documentario di Michael Moore. Ma va subito detto che non è il suo lavoro migliore, c’è molto di già visto (anche in precedenti film dello stesso regista) e alla fine lascia un retrogusto di anacronistico, di tesi molto deboli, peraltro sviluppate senza l’efficacia che Moore ha messo in mostra in altre pellicole, e a volte, dispiace dirlo, anche rasentando inconsapevolmente il grottesco.
L’invasione italiana è l’elogio delle ferie, della tredicesima, della maternità retribuita e degli imprenditori che esaltano questo paradiso terrestre rincarandone la dose: “Se diamo due ore per il pranzo è perché le persone hanno la possibilità di mangiare in famiglia e lavorano meglio, e poi in Italia siamo più felici perché ci piace fare l’amore”. Detto così, oltretutto in un momento in cui il welfare italiano ed europeo si sta pian piano destrutturando, vien quasi voglia di dire beati gli americani. Bersaglio fallito.
Si continua in Francia per la cura con cui vengono organizzate le mense scolastiche, il Portogallo per la depenalizzazione delle droghe, la Finlandia per l’istruzione pubblica e gratuita cosicché “i ricchi, visto che i figli dovranno per forza andare a scuola con gli altri bambini, fanno sì che tutto funzioni bene e che l’istruzione sia di eccezionale qualità. Inoltre i loro figli crescendo anche con i poveri e diventandone amici, da grandi ci penseranno due volte prima di fotterli”. Si arriva quindi in Slovenia per l’università gratuita, in Germania per la partecipazione dei lavoratori nelle scelte della loro azienda e per le attenzioni che ricevono dagli imprenditori e dallo Stato affinché non si stressino. L’invasione della Norvegia invece documenta la funzione riabilitativa delle prigioni, dove solo ogni detenuto ha la chiave della sua cameretta e durante il giorno si forma secondo i suoi interessi. Coloro a cui piace cantare possono usufruire perfino di una sala di registrazione, la Criminal Records. In tutto questo, gli agenti di un carcere di massima sicurezza inaugurano la struttura con un video cantando tutti insieme sulle note di We are the world. Sì, a modo suo è davvero una minaccia. Sia ben chiaro che nessuno, ma proprio nessuno vuole cambiare modello, neanche dopo gli attentati di Anders Breivik (22 luglio 2011) che fece 77 vittime, tra cui molti ragazzi. Infine per l’emancipazione delle donne Moore ‘invade’ la Tunisia dove sono presenti strutture sanitarie gratuite per la fertilità e per l’aborto, e l’Islanda, patria di Vigdìs Finnbogadòttir, prima donna al mondo ad essere eletta Presidente della Repubblica, e patria dell’unica banca al mondo che non è stata coinvolta nella crisi. Fondata e gestita da tre donne, il loro motto per tutelare i risparmiatori è “Se non lo capiamo non lo compriamo”.
Un viaggio a tratti estenuante con l’unico scopo, probabilmente, di permettere a Michael Moore di riflettere su come tante di quelle conquiste europee siano nate in America e sulla necessità di riappropriarsene. Un po’ poco. Probabilmente il regista, diventato orfano dei Bush, fatica a trovare una nuova controparte e quindi nuova ispirazione. Peccato che l’abbia cercata in Italia e in Europa dove, ormai anche qui, parte e controparte si fatica a distinguerle e spesso si confondono. Non poteva che uscirne fuori un film senza lode e… senza lode.
Where To Invade Next: Michael Moore ‘imperialista’
Il celebre documentarista, a corto di idee, prova a cercarle nel resto del mondo. Il risultato è debole.