Nel complesso e labirintico sistema produttivo cinematografico, italiano e mondiale, è doveroso orientarsi attraverso sottocategorie. Dramma, commedia, thriller, fantascienza etc: ognuno di questi generi è sempre accompagnato, nel bene e nel male, da un pregiudizio dello spettatore che lo va a vedere. Fra tutti i generi, però, ce ne è uno che è contraddistinto da una sorta di nobiltà, legata più al passato che al presente: i film politici (non quelli fatti politicamente che predicava Jean Luc Godard). I temi del terrorismo, della lotta rivoluzionaria, della sovversione e dell’attivismo godono sempre di un grande rispetto, quasi come se a una pellicola fosse dovuto un giudizio pregiudizialmente positivo per il suo tema. Annarita Zambrano, qui al suo esordio, si muove proprio su questo terreno e sfrutta il tema politico della cessazione della dottrina Mitterand e dell’omicidio a sangue freddo di Marco Biagi per raccontare una sorta di disgregazione familiare.
Dopo la guerra (Après la guerre) fa il verso alle opere di Bellocchio, vuole essere Bella addormentata ma manca del genio, dell’estro e della capacità di messa in scena del regista di Bobbio. Il risultato sono 100 minuti dall’originalità modesta, e soprattutto attraversati da una disperata voglia di fare un film d’autore.
Bologna, 2002. La protesta contro la riforma del lavoro esplode nelle università. L’assassinio di un giudice riapre vecchie ferite politiche tra Italia e Francia. Marco, ex-militante di sinistra, condannato per omicidio e rifugiato in Francia da 20 anni grazie alla Dottrina Mitterand (che permetteva agli ex terroristi di trovare asilo oltralpe), è sospettato di essere il mandante dell’attentato. Quando il governo Italiano ne chiede l’estradizione Marco decide di scappare con Viola, sua figlia adolescente. La sua vita precipita, portando nel baratro anche quella della sua famiglia italiana, che, da un giorno all’altro, si ritrova costretta a pagare per le sue colpe passate.
Il Biografilm festival di Bologna è la cornice perfetta per presentare al pubblico italiano la pellicola passata anche a Cannes nella sezione Un certain regard. Bologna è la città delle contestazioni, il luogo dove fu ucciso nel 2002 Marco Biagi, professore universitario e giuslavorista italiano a cui la città non ha mai smesso di pensare. A lui è stata intitolata una piazza nel centro, nei pressi dell’antico ghetto ebraico, e ancora oggi nelle scuole capita spesso sentirne parlare. Le contestazioni, nell’ateneo del capoluogo, non si sono mai fermate; basti pensare alla questione dei “tornelli” dello scorso inverno, episodio diffusosi rapidamente attraverso tutta la penisola. La Zambrano, allora, comincia il suo film proprio nelle aule universitarie, nella facoltà di Giurisprudenza, sulla scalinata adornata da statue che conduce alla aule. Il professor Mariani (alter-ego di Marco Biagi) viene freddato sulle scale. L’azione si sposta rapidamente in Francia per seguire la fuga da Parigi di Marco (Giuseppe Battiston) e sua voglia Viola verso un casolare in campagna, intenzionati a nascondersi. Da qui in poi la cifra politica del film va via via scemando, mentre la sceneggiatura si concentra piuttosto sulle vite attorno a Marco, al suo passato, al suo presente e soprattutto al suo futuro. È proprio da questo momento in poi che lo script tenta di rifare Bella addormentata, raccontare una disgregazione familiare, generazionale, la frizione generata da punti di vista contrastanti, da idee ed intenzioni diverse.
Nella prima parte del film seguiamo Marco, il quale deve scappare in Nicaragua, unico stato che lo ha accettato come rifugiato politico, mentre sua figlia, la sedicenne Viola, desidera rimanere in Francia a vivere la sua vita. Le giornate scorrono in modo ordinario, senza che succeda nulla degno di nota. Da segnalare c’è solo un’intervista che Marco concede ad una giornalista francese, nella quale dice le solite cose che si dicono a proposito della “lotta”. Sono state dette talmente tante volte da essere diventate una stereotipo ridicolo. “La colpa non è di uno ma della collettività”, “L’Italia è un paese corretto”, “La lotta è giusta”. Al di là delle posizioni politiche che un individuo decide o meno di assumere, queste vere e proprie frasi “di circostanza” sono riscontrabili in ogni documento o comizio o protesta studentesca dagli anni 70 ad oggi. Non hanno un valore in sé ma lo hanno in quanto “viatico” per il cinema d’autore, il cinema impegnato, politico, quello che viene sempre riconosciuto come “importante” a priori. Quello che si fa con una messa in scena povera, con la macchina a mano, con la mancanza di musica e di guizzi a livello di regia. Quello che oramai, purtroppo, sembra essere diventato un lavoro di norma, un canovaccio da cui attingere come da una fonte infinita.
La seconda parte del film, invece, racconta la vita della sorella di Marco, interpretata da Barbora Bobulova, professoressa in un liceo classico di Bologna, madre di una bambina e moglie di un importante giudice. Analogamente al capitolo precedente, gli avvenimenti degni di nota sono davvero pochi. Si cerca di mettere in scena le ripercussioni che un evento può avere sui familiari della persona che lo subisce; esattamente quello che succedeva ai diversi protagonisti di Bella addormentata, collegati direttamente o indirettamente alla decisione dei genitori di Eluana Englaro. Bellocchio però sapeva orchestrare il film come un sapiente direttore, alternare i registri, raccontare un importante fatto italiano attraverso una miriade di punti di vista e tramite situazioni molto diverse tra di loro.
La Zambrano, invece, gonfia di “gravitas” ogni scena; carica ogni momento, vuole riempire il film di solennità. Cerca, letteralmente, di “gonfiarlo”. Sembra davvero che l’obbiettivo sia arrivare allo status di film politico impegnato ed importante. Basti pensare alla scena che racchiude tutto lo spirito del film: una tragicomica cena familiare nella quale la Bobulova, con tono solenne e serioso vuole spiegare alla figlia di 6-7 anni per quale motivo il fratello sia rifugiato a Parigi, informando la bambina in merito alla “guerra”, alla “lotta” e ai “compagni”. Le tre parole chiave a cui la regista si aggrappa per costruire con poco originalità Dopo la guerra.
Annarita Zambrano potrebbe avere molto da dire, ma c’è da sperare che in futuro si liberi dell’ansia da prestazione che ha condizionato questo suo debutto, si lasci alle spalle una retorica di cui non ha bisogno e metta il suo discorso filmico a servizio di qualche idea meno polverosa.
Dopo la guerra: l’eversione come sfondo di un dramma familiare (recensione)
L'opera prima di Annarita Zambrano, presentata a Cannes e poi al Biografilm, risente delle insidie tipiche di un debutto forzatamente autoriale.