“Rachele, vedendo che non le era concesso di procreare figli a Giacobbe, divenne gelosa della sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli, se no io muoio!». Giacobbe s’irritò contro Rachele e disse: «Tengo forse io il posto di Dio, il quale ti ha negato il frutto del grembo?». Allora essa rispose: «Ecco la mia serva Bila: unisciti a lei, così che partorisca sulle mie ginocchia e abbia anch’io una mia prole per mezzo di lei». Così essa gli diede in moglie la propria schiava Bila e Giacobbe si unì a lei.” (Genesi 30, 1-4).
Era stata annunciata come una delle novità televisive più importanti dell’anno e non ha deluso le aspettative: The Handmaid’s Tale, il nuovo show di punta della piattaforma di streaming americana Hulu, esordisce con una bellissima prima stagione, talmente convincente che potrebbe addirittura diventare la grande sorpresa alla serata degli Emmy in programma nel mese di settembre (nonostante la concorrenza molto agguerrita).
La serie è ispirata a Il Racconto dell’Ancella, romanzo del 1985 di Margaret Atwood.
In un futuro distopico dove le materie prime scarseggiano e la violenza regna sovrana, gli Stati Uniti sono governati da un regime fondamentalista che vuole imporre i valori tradizionali della Bibbia. Dato il crollo repentino della natalità, questa oligarchia profondamente misogina schiavizza le donne fertili per ripopolare il mondo; una delle vittime è Offred (Elisabeth Moss), ribattezzata con questo nome perché uno dei pezzi grossi della nuova società, il Comandante Fred Waterford (Joseph Fiennes), è il suo “proprietario” ma la situazione creerà notevoli tensioni con la moglie dell’uomo, Serena Joy (Yvonne Strahovski). Prima del golpe, June (il vero nome dell’Ancella) era una donna dalla vita normalissima, con una figlia e un marito (rifugiato in Canada); proprio per questo motivo, non si rassegna a vivere in modo miserabile e cercherà in tutti i modi, grazie anche all’aiuto di altre persone, di reagire.
Il prodotto di Hulu, ancora inedito in Italia, è un manifesto laico e femminista di grandissimo impatto.
Sembra come se la scrittrice e attivista canadese Margaret Atwood avesse già previsto, nel lontano 1985, ciò che sarebbe successo in questo particolare periodo storico: in piena epoca Trump, dove l’integralismo religioso sta nuovamente rialzando la testa e le donne non vengono prese sul serio (lo stesso Commander-in-chief, in un libro del 2006, le ha definite come “oggetti esteticamente piacevoli”), i temi trattati dal suo romanzo sono ancora oggi di straordinaria attualità. Se però l’opera della Atwood è ambientata in un mondo devastato dalla guerra e dall’inquinamento, lo show creato da Bruce Miller (Alphas, Eureka e The 100), nel corso dei primi dieci episodi, non dipinge uno scenario post-apocalittico (se escludiamo l’infertilità diffusa, non troviamo grosse differenze rispetto ai giorni nostri) e questa scelta, azzeccata sotto tutti i punti di vista, crea allo spettatore un disagio ancora maggiore perché, in una situazione del genere, potremmo potenzialmente ritrovarci anche noi (i numerosi flashback, in cui si vedono i personaggi principali nella loro vita di tutti i giorni prima del golpe, accentuano in modo significativo questa sensazione di straniamento). Ma oltre a ciò, cosa sconvolge in The Handmaid’s Tale? Sicuramente la violenza sistematica nei confronti del genere femminile: stupri, mutilazioni, lapidazioni, nulla è risparmiato a queste povere donne che trovano, in molti casi, nel suicidio l’unico modo per alleviare la loro sofferenza interiore; però attenzione, neanche le rappresentanti delle classi più abbienti se la passano molto meglio perché è vero che non sono soggette al trattamento barbaro riservato alle Ancelle ma la subordinazione nei confronti degli uomini è pressoché totale (come nel caso della moglie del Comandante). E’ in questo contesto che assistiamo al dramma umano di June/Offred (interpretata da una eccezionale Elisabeth Moss, la Peggy di Mad Men), una giovane madre di famiglia che, nonostante le angherie subite, avrà la forza necessaria per ribellarsi, utilizzando metodi non ortodossi (principalmente facendo leva sull’attrazione sessuale che il signor Waterford prova nei suoi confronti); ovviamente il suo personaggio è il più sfaccettato della serie ma anche quelli secondari sono scritti benissimo, come per esempio la già citata Serena Joy (una Yvonne Strahovski fenomenale, mai così brava), la dissidente Oglen (una sorprendente Alexis Biedel, la Rory di Gilmore Girl) e la terribile Zia Lydia (Ann Dowd) mentre i characters maschili, forse deliberatamente, sono quelli in assoluto meno carismatici (Joseph Fiennes ne esce qui un pò ridimensionato).
The Handmaid’s Tale è il progetto ambizioso che serve a Hulu per contrastare i network americani più prestigiosi.
Il romanzo della Atwood era già stato adattato per il cinema nel 1990 con scarsi risultati (il film vedeva nel cast, tra gli altri, Robert Duvall e Faye Dunaway), ma in questa occasione Hulu ha voluto fare le cose in grande, concedendo grande libertà creativa a Bruce Miller e soci. La prima cosa che salta all’occhio in The Handmaid’s Tale è sicuramente la regia, molto ricercata anche per gli alti standard televisivi odierni: Reed Morano, la regista dei primi episodi (negli show televisivi, l’episodio pilota è fondamentale perché è quello che definisce, tra le altre cose, lo stile visivo della serie), mette in scena in maniera esemplare un microcosmo solo all’apparenza governato dall’ordine e dalla tranquillità ma che, sotto sotto, ribolle violentemente come una pentola a pressione pronta ad esplodere (da sottolineare la cura dei dettagli, dalla fotografia ai costumi); inoltre l’utilizzo costante di primi piani è fondamentale per la caratterizzazione psicologica dei protagonisti perché, più delle parole, sono le espressioni del volto ad esprimere il loro vero stato d’animo e le loro emozioni. Lo show non si preoccupa di mostrare scene scioccanti, che sono funzionali alla narrazione, ma Miller e il suo staff di autori le dosano sapientemente per scuotere il pubblico nei momenti opportuni.
Se proprio vogliamo cercare il classico pelo nell’uovo, nella seconda parte di stagione c’è una piccola deriva retorica che stona col quadro generale (nelle scene finali c’è una caduta di stile non consona al rigore tipico dello show) e, soprattutto, la scelta di non rappresentare la questione razziale ha fatto molto discutere (ci sono state a riguardo aspre critiche) ma ciò non abbassa la qualità di quella che si candida ad essere una delle serie più importanti dei prossimi anni; già rinnovata da Hulu, The Handmaid’s Tale in America è diventata ormai un vero e proprio fenomeno di costume (la campagna promozionale in vista degli Emmy e le proteste antiabortiste in Ohio sono solo gli esempi più eclatanti).