Dopo un mid-season finale abbastanza deludente, eravamo tutti in attesa di sapere cosa ci avrebbe riservato la sesta stagione di The Walking Dead al suo ritorno. Si sa: The Waking Dead offre il meglio di sé quando è l’azione a farla da padrona e questa puntata, pur con tutti i difetti ormai cronici della serie (ritornerò dopo sulla questione), intrattiene e fa parlare molto di sé.
Il tema centrale dell’episodio, trasmesso lunedì sera da Fox Italia, è la nuova reunion dei nostri eroi ad Alexandria: in apertura vediamo come Daryl, Sasha ed Abraham riescano ad uscire illesi, in maniera rocambolesca, da un agguato ad opera di un gruppo di uomini capitanato da Negan (il nuovo, atteso villain della serie interpretato da Jeffrey Dean Morgan e che avrà un ruolo centrale in questa seconda parte di stagione), riuscendo così a dare man forte agli altri che stanno affrontando l’invasione di zombie all’interno della cittadina. Mentre però Rick e compagnia bella sono nel mezzo della mischia, qualcosa va storto: Jessie (la milf biondina di cui l’ex vice-sceriffo era invaghito) e i due suoi figli vengono uccisi dai vaganti e durante la colluttazione Carl rimane gravemente ferito. Nonostante tutto ciò però, grazie ad uno stratagemma escogitato da Daryll, i nostri riescono, ancora una volta, ad avere la meglio sugli zombie e Rick si rende conto di come l’unione possa fare davvero la differenza per la sopravvivenza del gruppo. Da segnalare in particolare due momenti: la scena della morte della famigliola, realizzata registicamente in maniera molto interessante (viene mostrata quasi come se si trattasse un’allucinazione di Rick) e la scena, già instant cult per i fan, di Daryl con il lanciarazzi: un pò rozza ma indubbiamente molto efficace.
Sia chiaro: alla fin fine questa è stata una buona puntata (soprattutto per gli standard recenti della serie) ma è l’ennesima dimostrazione di come The Walking Dead sia un prodotto con un enorme potenziale (i momenti appena citati ne sono la conferma) che però non riesce mai a esprimersi nel migliore dei modi, soprattutto negli ultimi anni.
Da qui nasce un sospetto: la serie non riesce più a dare il massimo nel momento in cui è diventato showrunner Scott M. Gimple.
Infatti, da quando nel 2014 Gimple, fumettista e sceneggiatore dal curriculum non proprio brillantissimo, è diventato timoniere di The Walking Dead (subentrando a quel Glen Mazzara che, da esperto uomo di televisione, ha gestito ottimamente la seconda e la terza stagione dello show), sembra come se la serie seguisse sempre un canovaccio predefinito e ben preciso: sparare le cartucce migliori (le evoluzioni di trama ed i colpi di scena) nelle puntate iniziali e finali delle due tranches che formano una stagione del telefilm a scapito degli episodi centrali, quelli più introspettivi e meno d’azione, che risultano sempre più deboli e deludenti. Questa scelta di scrittura di per sé non è una novità, dato che frequentemente i momenti di stasi narrativa di una serie sono riempiti con episodi che in gergo vengono per l’appunto chiamati filler, ma se ogni stagione è composta da ben 16 episodi e sei a capo del prodotto televisivo, assieme a Game of Thrones, più famoso e seguito al mondo (e non della classica serietta da quattro soldi della CW) allora questo può diventare un serio problema da gestire.
Il punto è che più passa il tempo e meno The Walking Dead diventa interessante da seguire.
La tensione drammatica, ahimè, è ai minimi termini e manca una significativa caratterizzazione di tutti i personaggi -principali e non- con la conseguenza che non riusciamo più a immedesimarci e provare empatia. Se lo show continuerà imperterrito a fare ascolti stellari (l’ultima puntata ha fatto negli Stati Uniti 13,74 milioni con un rating per la fascia 18-49 di 6.8, numeri davvero incredibili) non so se riusciremo a vedere in futuro un cambio di rotta radicale da parte degli autori. Anche se forse, paradossalmente, l’unica nostra speranza rimane il villain Negan.