Andiamo, ma l’avete visto Deadpool? Probabilmente è il cinecomic più innovativo e al contempo retrò fatto negli ultimi anni. E noi non troviamo niente di meglio da fare che parlare delle parolacce, della violenza e della sua presunta omosessualità? Deadpool si diverte ad ammazzare o scoparsi qualsiasi cosa si muova; si sapeva.
Ve lo concedo: è sorprendente vedere una trasposizione così fedele e ben fatta di un fumetto. Il film è molto sboccato, volano via teste come fossero riso a un matrimonio e una volta tanto all’amor cortese viene preferito un sentimento altrettanto intenso ma decisamente più erotico. Ci hanno anche ripetuto fino alla nausea che il film è stato realizzato grazie al successo di un test footage trapelato (non sappiamo quanto casualmente) online e alla perseveranza di un Ryan Reynolds che portava sulle spalle il peso di alcune delle peggiori trasposizioni di fumetti di sempre. Anche il fatto che l’intera pellicola è costata più o meno quanto il solo trailer di Age Of Ultron e che ha avuto una campagna di viral marketing da manuale lo prendiamo per assodato. Ok. Però adesso basta banalità. Se vogliamo davvero capire il fenomeno Deadpool e provare a prevedere in che modo questo inaspettato e clamoroso successo commerciale cambierà l’industria dei cinecomic, dobbiamo guardare al fenomeno con un po’ di distacco.
Per capire Deadpool bisogna prima riflettere sui precedenti analoghi, e ce ne sono a bizzeffe.
Il regista di Guardians Of The Galaxy James Gunn, a proposito del riscontro avuto dallo stronzo in tutina rossa, è entrato in polemica con Deadline Hollywood sottolineando come non sia solo l’autoironia la chiave del successo del cinecomic Fox e rivendicando come già in passato la Disney/Marvel abbia utilizzato un tono analogo con la sua space-opera ma anche con Iron Man e Ant-Man. Gunn ha sottolineato anche come la vera forza del progetto sia nella sua originalità e nei rischi non trascurabili affrontati dal team creativo e dallo studio.
Ora è facile immaginare quanto sia cara la libertà di rischiare a un cineasta che ha potuto portare sul grande schermo personaggi come un procione incazzoso e un albero pensante un po’ ritardato, ma qualcuno dovrebbe ricordare a Gunn che quella stessa libertà non è stata accordata dalla Disney a Edgar Wright, cacciato in malo modo dal progetto Ant-Man per aver creato un film troppo divertente per i toni dell’universo cinematografico preesistente. Soprattutto sarebbe il caso di guardarci indietro per capire se, anche in riferimento ai nomi fin qui fatti, bastino l’autoironia e l’originalità a giustificare un tale trionfo al botteghino.
Di film sui supereroi violenti, sboccati, comici e originali negli ultimi anni ne sono stati fatti. E nemmeno pochi. Gunn è stato notato dalla marvel proprio per il suo originalissimo Super (2010) e Wright per il non meno divertente Scott Pilgrim vs. the World (2010). Di quegli stessi anni era però anche l’interessantissimo ma ignorato Defendor (2009), con un ottimo Woody Harrelson nei panni di un vigilante mascherato con problemi mentali, il dirompente Kick-Ass (2010) di un Matthew Vaughn recentemente tornato alla ribalta con Kingsman – Secret Service, e l’Hancock (2008) scritto da quel Vince Gillian che all’epoca era chiaramente più interessato a partorire Breaking Bad. Sorvolando sulle divertenti ma più edulcorate iterazioni supereroistiche dell’animazione (Gli Incredibili, Megamind e Big Hero 6, per citarne alcune) negli anni precedenti abbiamo comunque altri titoli che giocano in modo sorprendente con l’idea di cinema supereroistico, come il demenziale ma arguto Mystery Men (1999), il più generalista La mia super ex-ragazza (2006) del grande Ivan Reitman e il poco riuscito Spider-Man 3 (2007), in cui Sam Raimi provava senza successo a rincarare pesantemente la dose di commedia proponibile in un vero e proprio cinecomic.
Ovviamente in alcuni casi siamo lontani anni luce dal tono di Deadpool, ma in altri abbiamo delle idee di metacinema, violenza, scurrilità e dramma sorprendentemente vicine al mercenario chiacchierone. E se è vero che solo alcuni dei titoli citati sono vere e proprie trasposizioni di fumetti, è anche vero che a dispetto dell’eccellente fattura di alcuni di essi, nessuno ha mai riscosso un successo lontanamente paragonabile. Oddio, a ben vedere ci sarebbe un cinecomic per molti versi analogo a Deadpool che quasi 20 anni fa è stato un caso al box-office, ovvero The Mask (1994) con Jim Carrey. Però il parallelismo meriterebbe un approfondimento a parte, quindi è più saggio tornare a cavallo tra il primo e il secondo decennio del 2000 e capire cosa accadesse in quel periodo.
Intorno al 2010 fiorivano ovunque sperimentazioni che univano commedia, violenza e fumetti, ma gli studios detentori dei diritti Marvel e DC erano impegnati a creare il format ‘istituzionale’ che oggi associamo all’idea di cinecomic.
Mentre le suddette pellicole aprivano la strada all’esplosione di cultura pop che avrebbe plasmato il mondo Marvel per come lo conosciamo oggi con il primo The Avengers (2012), in quel ‘magico’ 2010 l’universo del Batman di Christopher Nolan era al suo apice. Nello stesso anno il Justin Theroux che ci ha recentemente divertito con il demenziale Zoolander 2 (leggete qui la nostra recensione) ci consegnava l’opinabile Iron Man 2 (2010), la ‘Casa delle Idee’ preparava i più seriosi Thor (2011) e Capitan America – Il Primo Vendicatore (2011), il regista di Kick-Ass lavorava al noioso reboot X-Men – L’inizio (2011) e altri si rendevano responsabili delle catastrofi di The Amazing Spider-Man (2011) e Lanterna Verde (2011).
E sì, c’era anche Deadpool. Nel 2009 Ryan Reynolds vestiva per la prima volta i panni dell’alter ego di Wade Wilson in X-Men le origini – Wolverine. La merda™. Il primo installment indipendente del Wolverine di Hugh Jackman non poteva permettersi toni troppo scanzonati (anche se un po’ più di violenza sarebbe stata gradita), eppure venne scelto come antagonista il più divertente dei personaggi Marvel. Come sappiamo tutti il personaggio venne stravolto e ne fecero una sorta di Baraka senza bocca spara-laser-dagli-occhi. Coerentissimo.
La Fox aveva praticamente buttato nella spazzatura il personaggio del mercenario chiacchierone, eppure il clima per utilizzare meglio i diritti di sfruttamento del personaggio e investire in uno spin-off violento e irriverente incentrato solo su di lui c’era tutto. A dirla tutta sulla carta sembrava il momento storico migliore, ma se anche le cose fossero andate diversamente probabilmente il box office avrebbe reagito tiepidamente. Perché?
Il successo del Deadpool del 2016 intercetta il sentire di un pubblico che non ne può più di film grandiosi e patinati in cui ogni due giorni si rischia l’estinzione della razza umana, per giunta senza che venga mai versata una goccia di sangue.
Siamo assuefatti. Certo, è l’idea stessa di eroe che prevede gesta coraggiose per proteggere la collettività (e speriamo che almeno Capitan America: Civil War rompa questo cliché). Ma la ricetta di blockbuster sempre più costruiti sugli effetti visivi (che pur apprezziamo molto, capiamoci), porta a ragionare costantemente in una scala colossale in cui la posta in gioco è sempre più grande. La distruzione di una città, del mondo, della galassia. Essendo però gli investimenti economici dietro queste pellicole imponenti almeno quanto i toni della narrazione, la scelta è di concentrarsi su prodotti che parlino a un pubblico il più ampio possibile per massimizzare i profitti. In un mondo in cui si calendarizzano saghe fino al futuro remoto, il bambino di oggi è il cliente spendente di domani.
Ma l’idea di un continuo fiorire di film che raccontano la morte di milioni di persone senza mostrare realmente né la violenza né il dolore fisico e psicologico, preferendo una loro distillazione glitterata, per quanto è sostenibile?
Deadpool è originale perché ha fatto vedere sangue, sesso e parolacce, dimostrando che la ‘nicchia’ over 16 può essere incredibilmente profittevole in termini d’incassi. D’accordo. Ma c’è un aspetto su cui quasi nessuno si è soffermato, e cioè che Deadpool porta all’estremo tanto l’idea di finzione quanto quella di realtà.
Gli occhietti bianchi di Deadpool animati al computer sono la più grande rivoluzione introdotta dalla pellicola nel genere supereroistico.
No, niente a che vedere con le lenti triangolari del cappuccio di Spider Man o i visori high-tech di Batman. Parliamo di una maschera con dei piccoli occhi bianchi che seguono i movimenti reali del viso sfigurato del protagonista. Il massimo del ridicolo, apparentemente. Eppure la riuscitissima realizzazione di un’idea di per sé spiazzante presuppone una sospensione dell’incredulità verso la quale nessun grande cinecomic recente aveva osato spingersi. Potevamo vedere la nascita di Visione e la trasformazione di Hulk, ma guai a prendersi una tale libertà di costume design. Ci provò nel 1997 Spawn, un film ispirato al celebre fumetto di Todd MacFarlane, ma la pensata di far coesistere un immaginario estremamente adulto e crudo con un comparto di effetti speciali degno di un luna park era fallimentare in partenza.
Eppure adesso, in un film dai toni a tratti molto realistici, accettiamo come fosse la cosa più normale del mondo un costume che fino a ieri avrebbe funzionato solo sulle pagine di un fumetto. Così come accettiamo di vedere un gigante di metallo che mangia i cereali.
Vuol dire solo una cosa: stanto cambiando le regole della narrazione, ed è più un cambiamento sociologico e antropologico che cinematografico.
Certamente Deadpool ha a tratti connotati cartooneschi, ma all’improvviso l’idea così assurda di un reboot con Wolverine bestiale, tozzo e con il costume giallo e la maschera in faccia sembra un po’ meno ridicola (soprattutto con l’avvicinarsi dell’abbandono di Jackman al franchise). Ormai siamo tutti voraci consumatori di pellicole sui supereroi, e potrebbe essere arrivato il momento in cui siamo pronti ad accettare senza colpo ferire un duro con un costume colorato e con quegli inverosimili espressivi occhi bianchi in computer grafica. E vedremo come sarà il prossimo Spider-Man.
In Deadpool si cazzeggia tanto, ma il dolore psicologico e quello fisico sono estremamente concreti.
Se da un lato la pellicola Fox si spinge verso la più grottesca inverosimiglianza, dall’altro assistiamo a una narrazione del dolore molto più vivida e intensa di quella cui siamo abituati. Sovente ci vengono raccontate storie di origini che offrono un background umano il cui scopo è creare empatia col supereroe, ma il livello del coinvolgimento emotivo rimane sempre estremamente superficiale. La morte dei coniugi Wayne o di Zio Ben o della famiglia di Drax, la solitudine dell’esilio di Superman, l’alienazione di Capitan America dalla propria epoca, il passato complicato di Vedova Nera o l’eterna dicotomia della psiche di Bruce Banner sono tutte linee narrative potenzialmente toccanti. Eppure, se escludiamo il commovente monologo di un inarrivabile Michael Caine, il racconto viene sempre ricondotto al cliché per lasciar spazio all’azione. Ebbene, in Deadpool l’azione non fagocita tutto il resto (anche per rientrare nel budget di 60.000.000 di dollari) e la caustica ironia del mercenario, nei flashback in cui affronta la malattia con la sua compagna, viene usata come l’espediente psicologico di un uomo malato ma con un carattere forte e orgoglioso, che non vuole suscitar pietà nonostante senta la fine che lo reclama. Un tocco di classe tutt’altro che scontato.
In Deadpool anche il dolore fisico è ritratto in modo piuttosto credibile. Non parlo dei cervelli che saltano in aria o delle fratture autoprocurate alle mani (uno dei momenti più divertenti), ma della tortura cui Ajax sottopone Wilson tenendolo in sospeso tra soffocamento e sopravvivenza. Il pensiero corre subito a dossier sui servizi segreti di cui abbiamo letto sui giornali. Una tortura realistica, spesso adoperata dalla CIA e qui resa soltanto un po’ più tecnologica, che colpisce mente e corpo e causa una sofferenza verosimile che quasi ci infastidisce nel profondo. Sfido ad aver provato la stessa sensazione sgradevole quando, ad esempio, a Wolverine veniva innestato l’adamantio nello scheletro.
Insomma Deadpool ha cambiato molte carte in tavola, eppure a breve non ne vedremo le conseguenze.
Certo, ci hanno detto che il prossimo Wolverine e i nuovi It saranno ‘rated R‘. Magari sentiremo qualche parolaccia in più nei prossimi cinecomic. Forse la Fox collezionerà l’ennesimo flop provando a rinverdire con un ‘trattamento deadpool’ il franchise infruttuoso dei Fantastici 4. Ma questo successo così inaspettato di un film tanto sui generis rischia di rimanere per ora un episodio isolato.
È difficile credere che nel sequel di Deadpool (che vedrà come comprimario il mutante Cable) non venga pesantemente rimpolpato il budget cambiando di conseguenza i delicati equilibri della sceneggiatura, così com’è difficile anche pensare che il tono costantemente autoreferenziale delle battute del film possa esser riproposto pedissequamente senza stancare. Quel che è sicuro è però l’investimento fatto da Marvel e DC per pianificare nel dettaglio un universo cinematografico per gli anni a venire prevede una pre-produzione e degli investimenti pluriennali che nessuno si sentirà di stravolgere alla luce di un caso cinematografico più unico che raro. D’altronde gli screening di Batman v Superman hanno registrato entusiasmo per il cavaliere oscuro ma anche un’accoglienza gelida per l’universo espanso DC. Per un po’ sono sembrati in discussione sia Zack Snyder che il film sulla Justice League, ma nonostante Deadpool alla fine tutto procede speditamente e immaginiamo all’insegna dei soliti toni pseudorealistici e funerei della Detective Comics.
Il problema sono i soldi: ce ne sono troppi in ballo. Se arriveranno delle novità succose, sarà tra qualche anno. Per ora non rimane che sperare in qualche finanziamento in più ai piccoli progetti indipendenti.
E adesso, se siete stati così benevoli e masochisti da leggervi tutto l’articolo, dovete proprio dirci la vostra nei commenti!