Dobbiamo ammetterlo: The Revenant – Redivivo non sarà un capolavoro ma è un bel documentario su DiCaprio. Anche perché nel corso degli anni sul rapporto conflittuale tra Leonardo DiCaprio e l’Oscar sono stati versati fiumi d’inchiostro e creati una moltitudine di meme, ma la questione rimaneva irrisolta. Ora invece, a offrire un commento definitivo a riguardo, arriva questo nuovo film naturalistico che vuole raccontarci quanto disperatamente l’attore brami quella statuetta. E così, animato da un intento quasi scientifico e senza sentire il bisogno di uno straccio di storia da raccontare, il regista Iñárritu ci regala una pellicola che studia voracemente la determinazione di un esemplare di Leonardus DiCapriensis che si sottopone a ogni sorta di tortura e umiliazione a tutto beneficio del sadismo degli spettatori, al solo scopo di supplicare l’approvazione dell’Academy.
Scherzi a parte, l’ultimo film del regista messicano è letteralmente cucito addosso a DiCaprio.
È un progetto completamente differente dai suoi lavori precedenti, anche se con il meraviglioso Birdman ha in comune l’intenzione di fare di un unico protagonista il fulcro di tutta la pellicola. A ben vedere lo sguardo di Alejandro Gonzalez Iñárritu sfiora davvero il documentaristico, almeno nella misura in cui Edgar Lee Masters in “Theodor The Poet” parlava della poesia come di uno studio di osservazione meticolosa delle azioni di un uomo. Se però la pellicola con Michael Keaton era intessuta di una poesia tangibile e impregnata di teatralità e allegoria, in The Revenant la brutalità degli eventi si sovrappone perfettamente alla brutalità di una narrazione che non ha alcuna intenzione di suggerire qualcosa di diverso dall’istinto animale che anima il protagonista. Non a caso la trama del film è tanto essenziale da poter essere quasi totalmente sovrapposta alla più elementare delle sinossi: un uomo, abbandonato dai suoi a morte ‘certa’ dopo l’attacco di un orso, assiste all’omicidio del proprio figlio da parte dell’unico compagno che era incaricato di vegliarlo nelle ultime ore di vita e da lì sopravvive a ogni sorta di prova per cercare vendetta. Il problema è che però il risultato somiglia molto a un torture porn confezionato clamorosamente bene, dato che i 156 minuti di durata sono quasi interamente dedicati a testimoniare gli forzi e i patimenti di un protagonista impossibilitato dalle ferite alla gola a proferire qualcosa di diverso da grugniti di dolore. A complicare il tutto subentra una lapalissiana debolezza della sceneggiatura, che racconta il tema della vendetta con eccessivo minimalismo e con qualche cliché di troppo, restituendoci un Hugh Glass (questo il nome del protagonista della storia) verso cui non riusciamo assolutamente a provare empatia e che rimane una maschera narrativa priva di ogni carattere e background.
Alla dedizione di DiCaprio al ruolo corrisponde purtroppo la sua peggior performance degli ultimi anni.
Nessun può accusare l’attore di non essersi immerso con assoluta abnegazione nei panni del personaggio, e anzi i suoi sacrifici (con la cui ennesima enumerazione non vi tedieremo) portano da un certo punto di vista il metodo Stanislavskij a un nuovo livello. A dirla tutta la dedizione totalizzante con cui DiCaprio si è piegato a ogni esigenza narrativa, seguendo Iñárritu in terre sperdute pur quando sarebbero bastate location più comode e prestandosi a prove scioccanti quando avrebbe potuto beneficiare di ‘illusioni teatrali’, portano la realizzazione del film sul piano dell’impresa epica, donandogli quell’aura di film verità che tanto ne cambia la percezione agli occhi della critica. Se però tale approccio recitativo è una vera e propria dichiarazione d’amore di Leo all’Oscar (cui per sua stessa ammissione ha rivolto il pensiero più di una volta durante le riprese), è pur evidente come in molti casi le difficoltà patite abbiano avuto la meglio sulla concentrazione, facendo trasparire più sguardi vuoti di quanti non ne fossero necessari e rendendo a tratti distratta la costruzione già difficile del personaggio, che è appena tratteggiato sul copione e viene spesso messo in scena con smorfie e versi stranamente gigioneschi (quelli più ‘in’ di noi lo chiamano ‘overacting’).
Non solo DiCaprio ha puntato tutto su un ruolo molto meno generoso di quelli che ha stupendamente ritratto negli ultimi anni, ma è evidente a chiunque come la scelta di Iñárritu sia ricaduta molto strategicamente su un attore cui è ormai quasi ‘politicamente’ impossibile rifiutare una statuetta e che però sembra al contempo la più infelice delle scelte di casting per ritrarre un personaggio che trasuda testosterone e ruvidezza. Insomma il ruolo gli è stato affidato più con criteri di marketing che con criteri artistici, e se ci sentiamo di dire che l’attore avrebbe meritato molti altri Oscar ma di certo non questo, sottolineiamo anche che su quello stesso schermo vediamo un Tom Hardy a dir poco superlativo che invece è perfettamente in parte.
Iñárritu è stato tanto calcolatore nello scegliere DiCaprio quanto è stato follemente egotico nel lanciarsi in un’impresa incontrollabile.
L’ambizione alla base del progetto Revenant è sotto gli occhi di tutti. Il regista è conosciuto per le sue scelte eclettiche e coraggiose, e questa è un’impresa nella quale si sarebbe potuto lanciare soltanto un uomo con la sua autostima ipertrofica (e che qui cita con estrema insistenza e dimestichezza l’opera di Andrej Tarkovskij, come vi abbiamo raccontato in questo articolo). Una sfida dell’arte alla natura e all’idea stessa di finzione.
Tale fiducia in sé purtroppo può nascondere più di un’insidia e i fattori che contribuiscono alla creazione di un capolavoro sono così tanti da sfuggire al controllo anche del direttore più talentuoso. Così mentre la scena di apertura del film (l’attacco all’accampamento da parte degli indiani) andrebbe proiettata all’infinito in ogni scuola di cinema poiché è quanto di più vicino possa esserci all’idea di assoluta perfezione cinematografica, è amarissimo constatare che al tanto discusso attacco dell’orso sopravvive il protagonista ma non il ritmo del film, che crolla pressoché immediatamente in uno stato semicomatoso in cui piomba inesorabilmente anche lo spettatore durante le quasi tre ore di nulla (stiamo esagerando, sì). Una storia avvincente con temi e ambientazioni à la Paul Thomas Anderson sparisce così nella quasi insignificanza, annacquata in una serie meccanica di sfighe inenarrabili che fanno uscire dalla sala facendo gli scongiuri, ma che il protagonista supera oltre ogni ragionevole previsione. E mentre l’occhio di Lubezki ricorda più del dovuto (complici un paio di scelte cleptomani di Iñárritu) una versione gelida e poco ispirata di Terrence Malick, allo stesso tempo il pensiero non può non andare alla coppia Lubezki-Cuarón di Gravity, di cui Revenant sembra a tratti un remake western.
Il film è molto bello e incredibilmente sopra la media, capiamoci, ma di certo l’incredibile attenzione mediatica e il consenso quasi unanime che ha incontrato non sono giustificabili solo con la qualità del film in senso assoluto. Hanno di certo contribuito lo star power di DiCaprio, una fotografia che rappresenta probabilmente il più alto risultato mai conseguito dal miglior cinematographer vivente (per Lubezki c’è un premio apposito) e il fatto che dopo l’Oscar dello scorso anno Iñárritu fosse un ‘osservato speciale‘. Ma è nostra convinzione che se The Revenant ha vinto così tanti premi ed è diventato un tale caso, il vero motivo è da ricercare nella vocazione artistica che sottende il progetto. Il film fallisce nel raccontare al meglio una storia ma riesce invece gloriosamente nell’incarnare quello spirito di scoperta, creazione e pionierismo che è alla base della natura profonda del cinema e del fuoco sacro che regge un’industria fatta di incassi ma anche di passione. Quei premi non celebrano il film di Iñárritu con DiCaprio, celebrano l’idea stessa di cosa siano i film.
Ora diteci nei commenti cosa definisce per voi l’idea di cinema!