In Italia i film supereroistici non hanno mai avuto terreno fertile. La questione meriterebbe un approfondimento a parte, ma i motivi principali sono un’identità culturale plurimillenaria, l’onnipresenza della religione Cattolica, la sindrome dello sconfitto che ci trasciniamo da secoli di alterne vicende belliche e la matrice rurale delle nostre origini.
Nonostante questo, diversi registi (soprattutto a cavallo tra gli anni ’60 e ’70), hanno provato a cimentarsi col genere; ma se escludiamo qualche isolato caso sorprendentemente riuscito nel terreno del fantastico e fantascientifico (pensiamo al meraviglioso La Decima Vittima di Elio Petri ma anche ai grandi successi televisivi di Bava) e filoni a sé stanti come il poliziottesco o lo spaghetti western, la casistica non è delle più felici.
GABRIELE MAINETTI, UN INNOVATORE CHE AMA ‘LE AMERICANATE’
Quando poi andiamo a restringere il campo al sottogenere supereroistico, praticamente il nulla assoluto. Sì, ci sarebbe il Salvatores dell’imbarazzante Il Ragazzo Invisibile, ma meglio risparmiare a lui e a noi stessi il dolore di ricordarlo.
Poi un giorno, dal nulla, arriva Gabriele Mainetti: un ragazzo che dopo essersi laureato in Storia e Critica del Cinema e aver un po’ sperimentato con la recitazione, la musica e la regia. Mainetti fonda una piccola casa di produzione (la Goon Films) con cui realizza Tiger Boy, un corto che finisce tra i dieci finalisti per la nomination agli Oscar 2014. Quel corto è pieno di idee e suggestioni, molte delle quali finiscono nel suo primo lungometraggio coprodotto con Rai Cinema, con cui quindi si prende la briga di dimostrare che in Italia una narrativa supereroistica è possibile.
LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT, UN TERREMOTO PER UN MERCATO IN COMA
È così che nasce Lo Chiamavano Jeeg Robot, un ‘esperimento’ molto interessante che cerca una via tutta italiana al cinecomic e riesce a riscuotere un successo di pubblico a dir poco sorprendente.
Lo Chiamavano Jeeg Robot non è certo un capolavoro né tantomeno ha la profondità del cinema serio. Eppure se collocato nel suo alveo pop – che prevede a prescindere una tolleranza verso l’abuso di cliché da cinefumetto – è scritto bene, girato meglio e soprattutto riesce a scrollarsi di dosso la polvere della retorica che soffoca le pellicole nostrane da tempo, offrendo un’esperienza di puro coraggioso intrattenimento.
MAINETTI, GUAGLIANONE E MENOTTI PER UN CINECOMIC ALLA CARBONARA
Per riuscirci Mainetti, partendo dal soggetto dello sceneggiatore Nicola Guaglianone e affidando la stesura al fumettista e sceneggiatore di soap opera Menotti, si ricava un proprio decoroso spazio nel linguaggio cinematografico italiano. Vincolato da un budget risibile, si allontana il più possibile dai cinecomic iperbolico tipico degli statunitensi tornando a un’idea di supereroismo molto anni ’80, infarcendola di una generosa dose di poliziottesco e calandola con tutti e due i piedi nella realtà della Roma più disagiata.
Roma, con la sua identità così ineludibile, è forse la prima vera protagonista di Lo Chiamavano Jeeg Robot. Eppure la Roma del film è profondamente diversa da quella reale, anche se verosimile. Gli ambienti malavitosi di Romanzo Criminale vengono esasperati e semplificati in una riproduzione nostrana dei cliché americani (le gabbie con i cani, il quartier generale con tanto di scrivania, l’attracco sul tevere con i bidoni radioattivi, la street art come incitazione alla sommossa) e la continua minaccia delle bombe senza rivendicazione che tiene in scacco la Capitale crea una tensione di sottofondo utile a dimenticare la grottesca comicità di una certa quotidianità Romana. Ottimo espediente.
SANTAMARIA VERACE E MARINELLI GIGIONESCO: ANTITESI A CONFRONTO
La sceneggiatura è così scolasticamente imperniata sul classico viaggio dell’eroe di Vogler da rivelare spesso una ricerca dell’effetto troppo artificiosa. Il protagonista, interpretato da un ottimo Claudio Santamaria, è un criminale ordinario in un mondo ordinario. Non si fa cenno alle sue motivazioni e aspirazioni, e nulla conosciamo se non la sua passione per il porno e i budini. Potenzialmente un ottimo punto di partenza, se non fosse che la totale assenza di appigli rende quasi impossibile ogni empatia con il personaggio e rende debole la sua ‘rinascita’ eroica dopo i momenti più bui della sua vicenda. Solo il suo essere ‘uno qualunque’ riesce a far scattare un meccanismo di immedesimazione nello spettatore.
Qualche difetto traspare anche nella costruzione del villain, che funziona molto bene ma ricalca così pedissequamente i cliché di genere da risultare profondamente incoerente con il proprio ruolo di capetto della rozza criminalità romana. Apprezzabilissimo l’accenno alla backstory legata a Buona Domenica, ma l’idea di un boss che, tutto incipriato, canta Anna Oxa come omaggio a un capo-cosca non è portata fino in fondo in relazione al contesto, e così sembra posticcia rispetto a tutto ciò che vi è costruito attorno. Comunque l’antagonista è scritto in modo così ruffiano da dare al pubblico proprio quel che si aspettava, e Luca Marinelli nel suo esasperato gigioneggiare porta a casa senza difficoltà il risultato.
IL PERSONAGGIO FEMMINILE, TRA OTTIMA CARATTERIZZAZIONE E PESSIMO ‘FRIDGING’
Menzione a parte merita la figura femminile, che da una parte è caratterizzata magnificamente e ha il merito – in un certo senso – di ‘salvare’ l’eroe dal suo nichilismo, dall’altra risente dei classici problemi di svilimento della figura femminile. Ilenia Pastorelli porta in scena un personaggio con un’aria amabilmente e veracemente dozzinale, che nella sua debolezza e avvenenza è per i canoni standard il perfetto interesse amoroso da difendere, e la cui malattia mentale e il conseguente sguardo trasfigurante sulla realtà diventano il vero fattore metafisico (molto più dei bidoni tossici).
La sua insistenza nello spiegare i personaggi e le sfide del suo cartone animato preferito ne fa il perfetto mentore del protagonista. Al contempo però, con l’evidenza di un vaporoso abito di tulle rosa, finisce comunque per scadere non solo nel ruolo della principessa da salvare, ma anche per diventare un perfetto esempio donna nel frigo: un espediente narrativo che strumentalizza la figura femminile e la sua morte al solo scopo di potenziare l’eroe.
LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT TRASFORMA IN RISORSE I LIMITI ITALIANI AL SUPEREROISMO
Al netto di quanto detto, in Lo Chiamavano Jeeg Robot l’impegno a costruire una storia se non originale quantomeno avvincente è evidente e il risultato è godibilissimo. Mainetti con il suo primo lungometraggio riesce nella meritoria impresa di evitare ogni velleità retorica e di confezionare un prodotto ironico, con un’identità forte e ammiccante il giusto (i titoli di testa in giapponese sono più eloquenti di quanto scritto sinora).
Paradossalmente, il segreto del successo dell’operazione sta proprio nell’aver trasformato in punti di forza alcuni dei fattori che in apertura d’articolo annoveravo come ostacoli a un supereroismo nostrano. Tanto di cappello.
Qui sotto trovate il cortometraggio Tiger Boy, che ha preceduto Lo Chiamavano Jeeg Robot.