A coniare il termine “suffragette” fu il quotidiano Daily Mail. Lo usò come variante dispregiativa del vero nome del movimento nato in Inghilterra nel 1865, quello delle “suffragiste”, al quale aderirono le donne che lottavano per ottenere l’estensione del voto al gentil sesso.
Raccontati in digitale, a colori, agli spettatori seduti confortevolmente al caldo di una sala cinematografica, potrebbero sembrare fatti preistorici, eppure ancora oggi oltre 50 milioni di donne, per lo più giovani, non hanno neanche l’accesso all’istruzione. Questa premessa non può che avere la conseguenza di rendere la visione del film consigliabile a chiunque. Un film che si chiude citando la legge che ha esteso il diritto di voto alle donne in Arabia Saudita nel 2015 e che quindi, per dirla tutta, ha il pregio non di poco conto di aver resuscitato dal vocabolario la parola “femminismo” prima che possa passare definitivamente nell’oblio o che venga sgangherata nella semantica ancor più di quanto già non lo sia.
Ma ora che il dente è tolto, si può aggiungere che se i fatti narrati sono assolutamente indimenticabili, non altrettanto si può dire di questa pellicola.
Suffragette, diretto da Sarah Gavron e scritto da Abi Morgan, i suoi pregi li ha. Laddove la rievocazione dei diritti civili proiettata sul grande schermo tende ad annullare i conflitti, in questo caso invece non si omette nulla della battaglia, anche violenta, delle suffragette. La regista non rivolge il suo sguardo ai salotti borghesi e letterari, che pure spesso hanno fatto da sponda, hanno sostenuto e anche accelerato il corso della storia. Qui siamo nella Londra del 1912 e Maud Watts (Carey Mulligan) è una giovane lavandaia che aderisce al movimento delle Suffragiste. La battaglia di queste donne incredibilmente determinate viene vinta nel 1928, ma non senza grandi sacrifici e sofferenze. Le suffragette combattono prima di tutto contro l’ostilità delle istituzioni e del pensiero corrente.
Dimenticate quindi quel capolavoro di Mary Poppins.
Qui la rivoluzione non si fa con le pillole di zucchero: preparatevi a una narrazione vista e vissuta dalla parte delle vere protagoniste, le quali per difendere i loro diritti lanciano sassi contro le vetrine e mettono in subbuglio l’intera città. Qui le avanguardie non provengono dai circoli intellettuali ma dalle fabbriche. Alla fine della vicenda, sia detto per la cronaca, le vittime saranno due, entrambe suffragette.
La nota dolente del film è sostanzialmente quella di una rappresentazione scenica decisamente debole. Lo sbilanciamento a favore del racconto didascalico si nota e non gli fa bene. La giovane regista ha coraggiosamente scelto di rappresentare il movimento ‘dal basso’ e l’occasione sarebbe stata ghiotta per fare emergere fragorosamente le complesse personalità femminili e il sacro fuoco della ribellione che animava queste ‘ghiandaie imitatrici” ante litteram (l’ovvio riferimento è a Hunger Games). Maud Watts è un personaggio immaginario ma il suo spirito e le sue azioni sono documentati da scritti e altro materiale d’epoca di tante donne del movimento. Oro colato per provare ad approfondire, indagare e graffiare di più.
Il cast è di primissimo ordine: Carey Mulligan, Anne-Marie Duff, Helena Bonham Carter, Brendan Gleason e Meryl Streep (che è sempre padrona della scena anche quando fa poco più che un cameo).
Per i cinefili più incalliti, un curioso aneddoto rivelato dalla stessa regista britannica: “Quando ho proposto la parte a Helena Bonham Carter – ha detto Sarah Gavron – ero molto nervosa perché sapevo che un suo bisnonno, Herbert Henry Asquith, primo ministro del Regno Unito per il Partito Liberale dal 1908 al 1916, era stato un grande oppositore delle suffragette. Ma con grande stupore e piacere ha immediatamente aderito al progetto con un perentorio “Sono pronta!” che mi ha dato slancio e sicurezza”.
Chi invece ama le ‘carrambate’ sappia che alla stessa Helena Bonham Carter un giorno fu presentata sul set Lena Pankhurst, in visita durante la lavorazione del film. Quando l’attrice seppe che era la pronipote di Emmeline Pankhurst, fondatrice della Women’s Social and Political Union che finì in carcere per tredici volte e sempre per motivi legati alle sue lotte per l’emancipazione femminile, andò da lei e si scusò a nome del suo antenato.
La leggenda narra che questa fu la sua seconda magia consecutiva dopo quella fatta con Cenerentola di Kenneth Branagh.