Youth – La Giovinezza è un’opera meravigliosa e profonda che non si regala con facilità. Per apprezzarla pienamente avrete bisogno di tutta la vostra sensibilità e immaginazione, ma se in quelle due ore riuscirete a osservare il mondo con gli occhi dell’anziano protagonista, la ricompensa sarà toccante.
Da giovani il futuro sembra incredibilmente vicino, ma alla fine della vita il passato ci guarda lontanissimo.
In una delle allegorie più riuscite del film, che accoglie lo spettatore sin dalla prima scena, la vita è musica, è uno spettacolo inondato di luce e in continuo movimento che giunti alla vecchiaia osserviamo fermi, senza goderne. Questo spettacolo è l’intrattenimento di un albergo sperduto tra le montagne di Davos, in cui soggiornano i protagonisti. Come già in Le Conseguenze dell’Amore, ancora una volta per Paolo Sorrentino la Svizzera è il non-luogo dell’attesa, ed è in quest’ambientazione quasi metafisica che un magistrale Michael Caine, leggendario direttore d’orchestra ormai ritiratosi da anni, passe lunghe giornate vuote in compagnia dell’amico regista, Harvey Keitel. Se il musicista sfugge alla musica che continua a chiamarlo come fa con il dolore e la vita, il cineasta non si arrende all’apatia e lavora con troppa dedizione alla sua grande uscita di scena, il suo testamento artistico. In questo limbo fatto di tentativi vani, l’ottimo Paul Dano è un attore in ritiro creativo che guarda alla vecchiaia con lo stesso amore con cui questa guarda alla giovinezza, e un’ispirata Rachel Weisz, qui figlia del direttore d’orchestra, è la voce del sentimento che ci reclama. Laddove le lusinghe della mondanità falliranno nel risvegliare dal torpore il personaggio di Caine, avranno successo le emozioni, in tutta la loro ingestibile contraddittorietà.
La maturità del linguaggio di Sorrentino trova una salda conferma.
Quella del regista è una poetica della delusione, dell’effimero e della sospensione.
Qui i tempi dilatati e il linguaggio surreale ma mai pretenzioso (anzi a tratti kitsch) portano su un terreno totalmente diverso da quello de La Grande Bellezza, molto meno sornione. Il simbolismo è una costante mai invadente, e due scene più di ogni altra testimoniano il selvaggio talento con cui il regista e sceneggiatore napoletano racconta il non detto. Una è quella in cui Caine e la figlia si ritrovano per la prima volta veramente vicini, accomunati nel dolore di una morte interiore che è raccontata da una ‘sepoltura’ di fanghi di bellezza. Qui il monologo straziante della Weisz è il vero fulcro del film, e la caduta del protagonista verso l’emozione è narrata per immagini dal lettino che lentamente sprofonda verso il basso. L’altra immagine guida è invece affidata alle parole dello scalatore Luca Moroder, che guarda il mondo da lontano come il protagonista ma ne è ricompensato da un senso di libertà e meraviglia. L’alpinista racconta di aver scalato il K2 e di aver trovato sulla vetta un comodino da letto, il cui cassetto era vuoto. Forse il senso del film è questo: la salita finisce quando capiamo che non contano le aspirazioni o i sogni, ma la capacità di cogliere la bellezza durante il viaggio.
Una pellicola ricca di ironia nella sua drammaticità. Profondissima ma non retorica, non autoreferenziale e non intellettuale. Perché come ci ricorda Sorrentino “gli intellettuali non hanno gusto”.