Radu Mihăileanu non è Omero ma l’odissea è il filo rosso che unisce i suoi film. Odissee personali, di gruppi, di comunità, di popoli. Viaggi nel mondo conosciuto ma soprattutto nell’ignoto “perché – dice il regista rumeno – solo chi viaggia verso territori sconosciuti si può mettere in relazione agli altri, conoscere di più se stesso e abbattere paure e pregiudizi”. Il riferimento alla cronaca attuale è svelato ma, per chi non lo abbia colto, la sua aggiunta è chiarificatrice: “Non escludo – aggiunge infatti Mihăileanu – di poter fare in futuro anche un film sul popolo palestinese, mi piacerebbe”. Intanto lui, rumeno naturalizzato francese e di famiglia ebrea realmente perseguitata dai nazisti, poi fuggita dalla dittatura di Ceaușescu, una pellicola sulla persecuzione nazista degli ebrei, Train de vie (1998), la ha già fatta ed è proprio l’opera più conosciuta, insieme a Il Concerto del 2009, che gli consente di iniziare a parlare del suo cinema. L’occasione è data dall’incontro a cura di Mario Sesti per Cinema al MAXXI.
Romantico, sarcastico, graffiante, ironico, umoristico, drammatico.
Il cinema di Radu Mihăileanu ha un panorama ampio, articolato, le sue sequenze si strutturano e si destrutturano seguendo le sue esigenze sceniche e quelle dei registri comunicativi che vuole rappresentare. “Il mio – spiega – è il tentativo disperato di uscire dall’incubo. È un’impostura positiva, un tradimento, una negoziazione tra realtà e immaginazione per poter sopravvivere. Purché non venga superata la frontiera dell’inaccettabile. In questo senso in Train de vie ho girato la scena dello Shabbat (la festa del riposo ebraico, ndr) con gli ebrei in preghiera vestiti da nazisti, o anche l’ultima scena dove forse si comprende ancora meglio come per me lo humor sia il pudore della tragedia”. Sul film vale la pena ricordare che per la sua capacità di essere coerente con la narrazione della tragedia vista allo stesso tempo con gli occhiali della realtà e della comicità, è stato accostato a Vogliamo vivere! del 1942, il capolavoro del tedesco Ernst Lubitsch, il cui titolo originale To Be or Not To Be, rivela ancora una volta l’infelice ‘tradizione’ nostrana di appioppare titoli in italiano completamente fuori centro. E ancora le musiche di Goran Bregović (uno dei rari casi in cui le immagini impreziosiscono le note) e soprattutto l’apporto di Moni Ovadia alla sceneggiatura in versione italiana.
In Romania Radu Mihăileanu si occupava di teatro.
L’avventura nel cinema è iniziata invece in Francia, frequentando la Scuola di Cinema Statale (Institut des hautes études cinématographiques, oggi La Fémis, École Nationale Supérieure des Métiers de l’Image et du Son). “Lì– dice il regista – ho appreso il linguaggio del cinema ma una grande scuola è stata anche quella di Marco Ferreri con il quale ho collaborato prendendo parte allo script del film Tv Il banchetto di Platone. Dal teatro ho assorbito il rigore della scrittura e la capacità di direzione degli attori. E visto che nei miei film ci sono quasi sempre gruppi molto numerosi di attori, gestirli mi appassiona come un meraviglioso caos da ordinare”.
Mihăileanu è anche co-sceneggiatore di tutti i suoi film. E qui la dinamica dello sdoppiamento dei ruoli diventa intrigante: “Quando scrivo – rivela – voglio offrire al regista un buon materiale, complesso rispetto ai personaggi, equilibrato nel racconto, con cambiamenti di ritmo e di registri narrativi. In questa fase non penso mai alla regia per non censurarmi. Ma quando lo script arriva all’altro me stesso, non di rado il regista critica lo sceneggiatore. È così, ad esempio, che ho scoperto quanto sia difficile girare su un treno o fare una scena come quella finale de Il Concerto a cui non avevo neanche pensato e che, invece, è stata quasi più difficile dell’intero film. Nella mia ideale classifica la fase più importante è quella della sceneggiatura. Poi vengono gli attori, infine la regia”.
“La regia – continua Mihăileanu – è la parte invisibile della sceneggiatura e per quanto mi riguarda è un lavoro faticoso, ma (sorride, ndr) lo accetto di buon grado perché precedentemente non sono riuscito a controllare lo sceneggiatore. La fase registica inoltre mi permette di far scoprire agli attori territori lontani dove non si sono mai spinti, spesso ignoti e sconosciuti”.
Ed ecco che torna il tema dell’odissea e dell’ignoto. Ma intanto il suo cinema è una certezza: “Questo non lo so – risponde sornione – non so neanche se sono davvero fatto per il cinema”.
Ma un altro suo film uscirà, e anche abbastanza presto: “In Italia a fine anno – conferma il regista – sarà sull’amore, sull’incapacità di amare e di essere solidali. L’argomento mi preoccupa moltissimo”.