Matteo Rovere è un giovane, coraggioso, produttore italiano, finanziatore, fra gli altri, di Smetto quando voglio di Sydney Sibilla e della serie prima e del film dopo dei The Pills, il trio comico romano formato da Luca Vecchi, Matteo Corradini e Luigi de Capua. Come autore, tuttavia, le cose gli sono andate parecchio male; Un gioco da ragazze (2008) era un film terribile, mentre ne Gli sfiorati (2011), se vogliamo, c’erano le prime avvisaglie di un miglioramento, da terribile a brutto. Dopo ben sei anni ritorna al cinema con Veloce come il vento – prodotto da Domenico Procacci e co-sceneggiato con Francesca Manieri e Filippo Gravino – raccontando una inusuale storia familiare ambientata nel mondo delle corse, tema peraltro sconosciuto al cinema italiano e visto per l’ultima volta in Velocità massima (2002) di Daniele Vicari con Valerio Mastrandrea.
Il film è racconta la storia di una giovane pilota diciassettenne, Giulia de Martino, la quale per non perdere la casa in cui vive col fratellino di sette-otto anni Nico, dovrà vincere il campionato GT. A causa di una tragedia familiare il suo destino si unisce a quello del suo fratello maggiore, Loris de Martino, ieri pilota di successo e oggi tossicodipendente, sparito dalla sua vita da più di dieci anni. Tuttavia, “il ballerino”, così soprannominato nel film, nonostante non sia più in grado di guidare si rivela subito un ottimo allenatore per la sorella, con la quale tenterà di ristabilire un rapporto.
Nonostante le premesse di una trama banale la storia si sviluppa in modo poco prevedibile e, senza scioccanti colpi di scena, è comunque interessante e riesce a tenere ‘vivo’ lo spettatore per tutte le due ore del film, tramontando malamente in un finale deludente.
L’opera è rischiosa, nuova, fresca e contraddistinta da un ‘groviglio’ di prime volte, dalla giovane attrice protagonista, Matilda De Angelis – bellissima ma non altrettanto brava- all’esordio sul grande schermo e dalla trasformazione di Stefano Accorsi, fino al tema principale del film, pionieristico nell’universo italiano. Nonostante l’inesperienza le corse funzionano, anzi, sono la cosa che funziona meglio nel film, le auto sono guidate da piloti professionisti, stunt-man e dagli attori stessi; niente CGI Hollywoodiano come in Rush ma lavoro di artigianato come in Ronin (1999), rendendo autentica la velocità e l’adrenalina che sentono i piloti negli abitacoli, facendo immergere lo spettatore nell’autentico asfalto dei circuiti di Vallelunga, Imola e Mugello.
Cosa è che non funziona allora nel film?
Il problema principiale è il personaggio di Stefano Accorsi, caricaturale e troppo grottesco, più vicino in certe parti al Tommy Wiseau di The room che al campione decaduto che dovrebbe rappresentare. Prendiamo come esempio il lottatore che Aronofsky aveva dipinto in The Wrestler , nel quale Mickey Rourke era pervaso da una decadimento palpabile, penoso, si portava sulle spalle un vergognoso peso per aver abbandonato la figlia, allo stesso modo in cui Loris De Martino dovrebbe essere rovinato dal suo passato vincente. Accorsi è anche bravo, anzi bravissimo, il problema è di sceneggiatura; non è accettabile un personaggio che fa ridere ogni volta che apre bocca, specialmente se con esso si vuole raccontare l’archetipo dell’ex-vincente dionisiaco, buono solo a portare caos nella sua vita.
Giulia De Martino, invece, è il rovesciamento drastico del personaggio feticcio che Rovere aveva inventato nei suoi due film precedenti, nei quali indagava la perversione e la ribellione adolescenziale femminile, attraverso la droga nel primo film e di una sorta di incesto nel secondo. Qui la sua protagonista è una ragazza iper-responsabile, che passa il suo tempo a prendersi cura del fratellino e della sua auto, pertanto il regista ce la fa vedere, tantissimo, con la tuta da meccanico addosso mentre è immersa con gli attrezzi nel cofano della sua Porsche da corsa. Matilda De Angelis è il viso e il corpo giusto per impersonare Giulia ma manca della giusta personalità per essere Giulia.
Nei due protagonisti il film cede e trova il suo punto di rottura: da una parte il personaggio, magari un po’ stereotipato, ma sicuramente ben congegnato e ancora più sicuramente non completamente onorato dalla De Angelis, dall’altra la caricatura a tratti irritante – soprattutto per gli Emiliani – di un tossicodipendente sempliciotto che non fa che ripetere “vacca boia” e “du maron” per la metà del film e che tutto fa meno che soffrire o coinvolgere lo spettatore nel suo universo di drogato.
Le aspettative erano alte, altissime, troppo alte; dopo il Jeeg coatto di Gabriele Mainetti, già film di culto per gli spettatori italiani e dopo il film testamentario di Claudio Caligari Non essere cattivo, i cinefili italiani si aspettavano una conclusione col botto dell’ideale ‘trilogia della rinascita’ del cinema italiano indipendente. Attenzione però, poiché se i primi due citati potevano effettivamente essere considerati come film indipendenti, Veloce come il vento è in realtà una pellicola abbastanza costosa, per la quale sono state usate tecnologie nuove e il dispendio di comparse e strumenti è ben visibile durante tutto l’arco del film, specialmente durante le varie gare, riprodotte con una fedeltà e una precisione quasi maniacale. Bene così.
Giusta l’attenzione registica di Matteo Rovere ai dettagli degli pneumatici e delle macchine, sensazionali le soggettive da dentro le auto mentre gareggiano e giustissima la scelta delle musiche e il montaggio sonoro.
Film discreto, funziona bene tutto quello che non riguarda i due protagonisti, mentre il difetto principale, lo ribadiamo ancora, si esprime nell’aspetto e nel modo di parlare di Accorsi: eccessivi i denti finti, le unghie sporche e il fatto che indossi una sola camicia per tutto il film, forse se Rovere si fosse concentrato di più su Giulia e l’avesse diretta meglio sarebbe uscito un film al livello, se non superiore, di Non essere cattivo o Lo chiamavano Jeeg Robot.