La prima stagione di Daredevil è stata un fulmine a ciel sereno, ma di quelli che con la loro carica elettrica sono in grado di resuscitare un personaggio apparentemente morto e sepolto (ma per ucciderlo ci vuole ben Affleck, ci vuole…). Pur non avendo dati d’ascolto – Netflix non ne diffonde – sappiamo per certo che è stato uno show amatissimo da pubblico e critica, che ha introdotto un nuovo linguaggio per il supereroismo televisivo e alzato clamorosamente l’asticella della qualità. Mentre l’Agents of S.H.I.E.L.D. di ABC (Fox in Italia) rimane infatti un prodotto superficiale e a tratti infantile, la serie che ha per protagonista Charlie Cox è un prodotto dai toni e le tematiche adulte, e questo grazie alle libertà concesse dal target meno generalista della piattaforma on demand di Hastings.
Un’altra responsabilità importante la serie l’ha avuta nel proporre un approccio diverso al mondo Marvel. Al contrario di quanto accade nella DC infatti, la direzione impartita alla Casa delle Idee dalla presidenza di Kevin Feige sta andando da anni verso un grande universo narrativo condiviso tra cinema e televisione (almeno per le licenze di proprietà de Walt Disney Studios), in cui ad esempio Phil Coulson e Peggy Carter sono passati dal grande al piccolo schermo, mentre il filone narrativo degli Inumani seguirà il percorso opposto. Se però tutte le emanazioni del MCU erano più o meno caratterizzate dal medesimo tono ‘colorato’, ironico e generalista, gli show di Netflix hanno applicato ai propri supereroi un trattamento consapevolmente incoerente con tutte le altre produzioni, che per cupezza e drammaticità ricorda molto più quanto fatto finora dalla Detective Comics. La scoperta è stata però che la ricetta ha funzionato benissimo per il Diavolo di Hell’s Kitchen e molto bene anche per Jessica Jones, prodotto ricco di erotismo almeno quanto Daredevil lo è di violenza e chiaramente profilato su un target femminile.
Il modo in cui questa serie così dirompente è arrivata alla fine della seconda stagione ci dà però molto materiale su cui riflettere. Se infatti ci sono stati numerosi miglioramenti che giustificano un giudizio entusiastico, al contempo sono suonati anche dei campanelli d’allarme sul futuro del franchise. Partiamo dai personaggi. Sappiamo che questa stagione ha visto come comprimari Daredevil, Elektra e The Punisher.
DAREDEVIL
Il Diavolo Rosso continua ad essere un personaggio di ottimo spessore. Le sue motivazioni sono sempre più forti, e intelligentemente la sceneggiatura non si adagia sul cliché del dualismo professionista di giorno/giustiziere di notte ma anzi abbatte sempre più i confini tra i due ruoli, tanto che la vocazione dell’eroe finisce per fagocitare l’esistenza dell’avvocato, regalandoci un Murdock progressivamente sempre più isolato dal mondo ‘normale’. In questo senso il personaggio della Natchios ha il compito di sbloccare la narrazione, ma la catabasi del main character è prevalentemente farina del suo sacco. Sull’altare del climax narrativo non viene sacrificata solo la normalità della vita di Matt però, ma anche alcuni filoni narrativi che vengono abbandonati non appena esplorati. L’immediato naufragio del rapporto sentimentale con Karen e la crisi dell’amicizia con Foggy sono infatti trattati in modo decisamente sommario, ma l’opinabile semplificazione narrativa permette di non rallentare il ritmo degli eventi e di porre le basi per evoluzioni future. La non banale scelta di controbilanciare un interesse amoroso apparentemente autentico con l’irresistibile appeal erotico di Elektra è un’altra freccia nella faretra della serie, così come lo sono la vulnerabilità di Murdock all’influenza dell’anti-eroina e l’importante componente della fede religiosa del protagonista, altro tema molto poco pop ma funzionale a raccontare una visione del mondo (anche con immagini coraggiose che sfiorano il kitsch, come ad esempio quando il Diavolo si fa il segno della croce mentre ancora indossa il costume) e a giustificare il rispetto di certi paletti. In definitiva la serie racconta un Daredevil allo sbando, che lascia andare alla deriva la propria normalità, non si preoccupa più di nascondere i segni delle proprie scorribande, si lascia tentare e manipolare dal suo controverso ‘primo amore’, non riesce a controllare le pulsioni di The Punisher ma anzi gli va incontro nella strada della spregiudicatezza ed è così distratto da farsi prendere alla sprovvista da quel che gli accade intorno. Esemplare in tal senso l’interrogatorio in carcere del sempre magnifico Wilson Fisk, un Vincent D’Onofrio che ci è mancato molto.
ELEKTRA NATCHIOS
Se la debolezza del protagonista era negli intenti degli sceneggiatori, la debolezza del personaggio di Elektra probabilmente no. Elodie Yung ritrae una donna forte e incredibilmente affascinante, tanto da rendere credibile il suo influsso su Matt, ma i chiaroscuri con cui viene tratteggiata risultano leggermente forzati all’inizio della stagione e totalmente incoerenti avvicinandoci al finale. La contraddittorietà insita tra la pulsione verso il bene e la tentazione di diventare l’incarnazione del male è uno spunto narrativo a tratti interessante ma gestito in modo sorprentemente grossolano, e la schizofrenia di alcune scelte non trova alcuna giustificazione convincente, dando l’impressione che tutta l’attenzione dedicata in fase di scrittura a The Punisher abbia comportato una maggiore trascuratezza verso Elektra.
FRANK CASTLE/THE PUNISHER
Se Wilson Fisk/Kingpin rubava la scena nella prima serie, Frank Castle reclama quasi il ruolo di protagonista. Jon Bernthal è una scelta di casting perfetta non solo in termini di fisicità, ma anche di straordinario talento interpretativo, e grazie a uno script impeccabile porta in vita quella che probabilmente è la miglior versione di The Punisher di sempre, comprese le declinazioni fumettistiche (ecco l’ira dei fanboy…). Il dramma di Frank è assolutamente credibile ed è raccontato con tale maestria da farci immergere profondamente nel suo dolore e farci quasi parteggiare per lui mentre stermina impietosamente decine e decine di vite umane. Il personaggio potenzialmente è ai limiti del fascista (e forse oltre), ma la profonda umanità conferita dalla backstory lo rende semplicemente un’altra faccia della stessa medaglia di Daredevil, perché come direbbe il Joker di The Killing Joke (perdonate il passaggio al fronte DC) “basta una giornata storta per trasformare il migliore degli uomini in un folle“. Il filone legal inerente il suo personaggio permette a Karen e Foggy di affermarsi in modo indipendente, rispettivamente nella redazione di un giornale e in un’aula di giustizia, affrancando i personaggi dal ruolo di spalle narrative, ma viene gestito con qualche lentezza di troppo. La scena di apertura del processo però, con il contrasto delle testimonianze pro e contro Castle, ci regala un momento di straordinario talento registico, con le inquadrature parziali dei volti a sottolineare la parzialità di ogni visione sul mondo. Grandissimo cinema, eppure siamo in TV.
COS’ALTRO FUNZIONA E COSA NO
È proprio questa la questione principale. Siamo davanti a un prodotto televisivo, eppure in alcuni momenti tocchiamo delle vette cui molti dei cine-comic degli ultimi anni, a dispetto dei budget stratosferici, non possono nemmeno ambire. Finché parliamo di approfondimento dei personaggi è scontato attribuire il risultato migliore a un formato spalmato su più puntate e che quindi permette una diversa costruzione della storia. Quando però ci rendiamo conto che sono addirittura alcune scene d’azione a far impallidire certi prodotti Hollywoodiani, non possiamo che giurare eterna gratitudine a Netflix.
In linea di massima le scene d’azione sono tutte buone, ma l’infinito piano sequenza di Daredevil che mette fuori gioco i Dogs of Hell nella puntata Il Meglio di New York (regia di Marc Jobst) e la scena di Frank Castle che si ‘difende’ nell’agguato nel carcere di Sette Minuti in Paradiso (regia di Stephen Sturjik) sono da antologia, e contribuiscono a mettere lo show su un piedistallo che lo distingue dalla maggior parte della serialità televisiva. È triste constatare quando invece non sia all’altezza la resa dei conti con La Mano nell’episodio finale, in cui il confronto con Nobu Yoshioka – personaggio inconsistente nonostante sia l’unico vero villain della stagione – è privo di ogni pathos e spettacolarità e, anzi, a tratti risibile. Viene da chiedersi perché per il gran finale non ci sia rivolti a Michael N. Knue, montatore dietro i migliori momenti della serie, comprese le scene suddette e la celebre liberazione del bambino vista nella prima stagione. Altra piccola nota negativa: a tratti non convince la recitazione di Cox, che sembra distratto soprattutto quando dismette la maschera. Menzione d’onore per Silvera e Gutierrez, che dirigono gli stunt.
SIAMO TERRORIZZATI PER IL FUTURO DELLA SERIE
Daredevil è una gallina dalle uova d’oro per Netflix, e di certo non tarderà ad arrivare l’annuncio di una terza stagione. Per il momento però i piani sono altri, e la cordata Marvel-Netflix sta lavorando per consegnarci il ‘debutto solista’ di Luke Cage, la serie di Iron Fist (con il Finn Jones di Game of Thrones come protagonista), la seconda stagione di Jessica Jones e la prima serie ‘corale’ che riunirà tutti gli eroi sin qui nominati: The Defenders. Non ci sono notizie ufficiali di uno spin off su The Punisher, ma considerata la bramosia con cui i fan lo stanno reclamando non è difficile prevederne un prossimo annuncio per la fase 2 dell’universo Netflix (che pare comprenderà anche Blade e Ghost Rider).
Detto questo, dov’è il problema? Il punto è che la forza delle serie supereroistiche di Netflix sta nell’aver trovato una formula propria e fortemente caratterizzante, del tutto indipendente dall’approccio adottato al cinema dai Marvel Studios. La Marvel però sta lavorando per far confluire questi personaggi sul grande schermo, inserendoli probabilmente in Avengers: Infinity War ed eventualmente mettendo in cantiere singole pellicole nella fase 5. Quest’operazione comporterà un progressivo cambio di paradigma e la scelta stessa di realizzare in modo prioritario una serie crossover come The Defenders lascia immaginare che l’approfondimento dedicato finora alla scrittura dei singoli character – vero punto di forza di Netflix – verrà inevitabilmente sacrificato e ridimensionato. Se è stato difficile approfondire nel migliore dei modi Elektra, Nobu e il rapporto di Matt con Karen e Foggy in questa serie, figuriamoci cosa accadrà quando i personaggi saranno molti di più. Come se non bastasse poi, già in questa serie abbiamo assistito all’inserimento forse non inevitabile del cliché supereroistico dell’upgrade di costume. Nel caso del Diavolo di Hell’s Kitchen il passaggio è stato totalmente naturale, per The Punisher è sembrato leggermente forzato e per Elektra semplicemente ridicolo e artificioso. Nulla di grave, per carità, ma se l’affollamento di personaggi e il cedimento a qualche cliché sono le prime avvisaglie dell’evoluzione dell’universo fumettistico Netflix, c’è da sperare che non si arrivi a un punto – neanche troppo lontano – in cui in nome del grande universo condiviso la qualità che ora amiamo vada sparendo.
In conclusione, di difetti la seconda stagione di Daredevil ne ha diversi, ma il risultato finale è così pregevole da farceli quasi dimenticare e far chiudere il bilancio assolutamente in attivo. Una storia corale di tre comprimari che, partendo da posizioni totalmente diverse, finiscono per perdersi alla deriva per poi ritrovarsi, e in cui la violenza (tutt’altro che edulcorata) ha un ruolo cardine. Non vediamo l’ora di rivedere il Diavolo Rosso che sfida Fisk e condivide lo schermo con The Punisher. Speriamo che nel frattempo The Defenders non rovini tutto.