Più progredisce la storia più quello di House of Cards diventa un racconto corale. La quarta stagione del drama prodotto da Netflix (in Italia distribuito da Sky) si è appena conclusa e mentre la figura di Claire ha un peso sempre maggiore, pari quasi a quello del presidente Underwood, c’è una moltitudine di personaggi meravigliosamente caratterizzati che si ricava un proprio spazio e polarizza la nostra empatia o la nostra avversione, rendendo questo grande ritratto del potere una visione sempre più appassionante.
L’ULTIMA STAGIONE SOTTO LA GUIDA DI WILLIMON
Il quarto ciclo di House of Cards è l’ultimo diretto dallo showrunner Beau Willimon, già autore del meraviglioso script di Le Idi di Marzo di George Clooney e al timone di HoC sin dall’inizio. È evidente come Willimon, prima di dedicarsi a nuove sfide professionali, abbia voluto lasciare il segno con una stagione assolutamente superlativa, in cui nonostante ci sia una mole sconsiderata di temi ed eventi, sufficiente per riempire 5 stagioni di qualsiasi altra serie, il focus della narrazione rimane sempre chiaro e ogni dettaglio è pesato con esperienza e furbizia. Il classico caso in cui verrebbe da dire che “c’è troppa carne al fuoco”, eppure lo straordinario team dietro lo show non perde mai il controllo della macchina produttiva e artistica.
LA GRANDEZZA DI UNDERWOOD È COSTRUITA MOLTIPLICANDO ALL’ESASPERAZIONE LE SFIDE
Per avere la misura di quanto gli sceneggiatori non abbiano lesinato in inventiva basta riflettere sull’incredibile numero di sfide che hanno ostacolato il cammino del protagonista nel corso della stagione (se non avete ancora finito di vederla non leggete).
Nell’arco di 13 episodi il personaggio interpretato da Kevin Spacey è stato messo a dura prova dalla crisi del petrolio, la crisi diplomatica con la leadership russa di Victor Petrov (leggi Putin), la pubblicazione di compromettenti foto del suo passato, l’attentato e i conseguenti serissimi problemi di salute, i propri fantasmi apparsi durante il coma, la morte della fidata bodyguard e ‘amico’ Edward Meechum, la presenza di diversi traditori nel proprio staff, l’avanzata della minaccia estremista dell’ICO (un califfato di fatto basato sull’ISIS), le sferzate inflitte da una Claire inarrestabile, le primarie dei Democrats, il tradimento della first lady con il ghostwriter Tom Yates, la brillante ascesa del temibile candidato repubblicano Will Conway, la campagna presidenziale, il rapimento sul suolo americano di una famiglia da parte dei terroristi dell’ICO e la relativa pressione mediatica e, non ultima, l’inchiesta giornalistica di un Tom Hammerschmidt determinato a porre fine con tutte le proprie forze alla carriera politica di Underwood.
Questa impressionante lista di avversità, inusuale in un panorama in cui si cerca di risparmiare sempre qualche idea per eventuali rinnovi, rende evidente come la tensione narrativa sia costruita con un ritmo serratissimo di minacce incessanti e come il carisma del main character sia costruito proprio con le sue sorprendenti reazioni a ognuno degli attacchi. Frank infatti non si sottrae ad alcuna sfida e la sua apparente debolezza, elemento ricorrente in questo ciclo di episodi, serve in realtà a rendere ancora più imponente il suo sistematico trionfo su ogni cosa e persona provi a stagliarsi davanti alla sua indomabile ambizione.
ORMAI È CLAIRE A DETENERE IL PRIMATO DELLA PERFIDIA
Lo straordinario talento con cui Robin Wright ha costruito negli anni il personaggio di Claire Hale Underwood ha portato gli autori a dedicarle sempre più spazio sullo schermo e importanza nella storia. Nella quarta stagione questo trend è quantomai evidente e Claire non solo appare di più e domina lo schermo (complice il coma del marito, che di fatto mette fuori gioco Spacey per due turni) ma è ormai del tutto sovrapponibile a Frank, dimostrando un’insaziabile ambizione personale e una spietata spregiudicatezza.
L’espediente narrativo scelto per mostrarci questa rinnovata determinazione è la presentazione della figura della madre malata terminale, attraverso tre momenti di straordinaria forza: il ricatto per cui Claire si dichiara disposta a venderne l’abitazione qualora non ne finanzi la campagna, la somministrazione dell’eutanasia per sfruttare il lutto come strumento di consenso politico e la notte di sesso con Yates subito dopo il decesso della donna. A rafforzare ulteriormente Claire la dirompente candidatura alla vicepresidenza e lo straordinario consenso pubblico di cui gode, fondamentale per costruire l’interessantissima contraddittorietà del personaggio e per fare da contraltare alla natura corrotta della sua moralità. Quando arriviamo all’ultima puntata è evidente come ormai Claire sia mossa da un desiderio inarrestabile di potere. “Basta dover conquistare il cuore degli altri. Instilleremo il terrore.”
GLI SCENEGGIATORI SI STANNO PREPARANDO A FAR FUORI SPACEY?
Non esistono attendibili indiscrezioni a riguardo e si tratta solo di una speculazione deduttiva di chi scrive, ma l’impressione è che, consapevoli del successo della serie ma anche dell’alto rischio di ripetitività e quindi di disaffezione del pubblico, gli sceneggiatori stiano lavorando per inserire nuovi personaggi capaci di reggere la serie sulle proprie spalle. Probabilmente nessuno ha ancora pensato all’esclusione di Kevin Spacey dalla serie, ma non è irragionevole che esista un ‘piano B’ per tenere alta l’attenzione degli spettatori, e la salute cagionevole del Presidente è ora un ottimo pretesto per servirne un’eventuale dipartita.
Non solo il personaggio di Claire si sta dimostrando tanto forte, contraddittorio e carismatico da poter reggere sulle proprie spalle la serie (avete notato che nel finale guarda in camera abbattendo per la prima volta la quarta parete?), ma in questa stagione viene introdotto Conway, interpretato dall’ottimo astro nascente Joel Kinnaman (già visto come protagonista nel remake di Robocop e ad agosto in sala con Suicide Squad). Immaginate se doveste scegliere come portare avanti House of Cards dopo l’uscita di scena degli Underwood, o se doveste progettare uno spin off: quali elementi usereste? Sarebbe indispensabile incentrare la storia su un politico che sia spregiudicato nel costruire consenso e privo di ogni moralità nell’affrontare gli avversari, ma servirebbe anche di differenziarlo da Frank per rendere più interessante la narrazione. Potrebbe ad esempio avere l’inesperienza, la determinazione ed eventualmente i dubbi di un giovane; dovrebbe essere repubblicano in modo da permettere di toccare altre tematiche, e potrebbe magari avere una meravigliosa e sana famiglia a fare da contraltare alla propria crescente corruzione. Il governatore di New York Will Conway, in poche parole.
Non corriamo però. Frank Underwood lo adoriamo (nella sua perfidia) e l’incommensurabile Kevin Spacey ancora di più. Al momento nulla fa supporre che il pubblico si sia stancato delle vicende del protagonista e le ipotesi più concrete sono che da una parte lo show stia semplicemente cercando di rafforzare i comprimari per alzare il tono degli scontri futuri e che dall’altra Netflix si stia lasciando aperta la strada per eventuali produzioni collegate.
LA SERIE HA SUCCESSO PERCHÉ RACCONTA SOFOCLE E SHAKESPEARE
Un giorno anche la serialità televisiva godrà dello stesso riconoscimento artistico faticosamente guadagnato dal cinema nella sua lunga (o breve) storia, e quel giorno House Of Cards sarà ricordato come una delle opere che più ha contribuito a definire gli standard di genere.
Viene da chiedersi quale sia il segreto del successo dietro questo dramma ricco di tecnicismi politici inaccessibili ai più, e la risposta è che gli elementi alla base dello show Netflix sono gli stessi che muovono le più grandi storie sin dai tempi della Grecia classica. Le lotte degli dèi, la sete di potere, l’inconciliabilità tra doveri verso lo stato e doveri verso la famiglia, i tradimenti e gli inganni, le dimostrazioni di forza, le prove infinite. Questi elementi alla base di mitologia, epica e tragedia sono gli stessi che ritroviamo in House of Cards e nonostante gli dèi capricciosi e volubili siano stati sostituiti dagli uomini più potenti della terra, il senso profondo alla base di queste storie rimane lo stesso.
Se invece volete riferimenti più vicini nel tempo prendete ad esempio Shakespeare, e il paragone tra regnanti ed eletti sarà molto più naturale. La perversione anziché essere evidenziata dalla deformità fisica sarà nascosta dalla telegenia e non ci saranno fantasmi ma inquietanti allucinazioni da ammonio, eppure saremo ancora incollati a queste storie capaci di colpirci così nel profondo.
In conclusione possiamo dire che la quarta stagione di House of Cards ha portato all’estremo tutti quegli elementi che ci hanno fatto amare questa strana storia in cui il presidente degli Stati Uniti d’America è il protagonista ma anche un villain (anzi, ora i villain sono due). Il predatore è più pericoloso proprio quando è messo all’angolo e gli Underwood non sono mai stati così pericolosi. Sono passati dal sentirsi paralizzati al voler terrorizzare deliberatamente il mondo intero, perché in fondo sono divinità e il mondo è il loro giocattolo. Spacey è tanto superlativo da risultare indispensabile almeno quanto lo è la Wright, a dispetto di ogni possibilità offerta dai nuovi sviluppi della trama. Willimon (in questo ciclo autore del primo e dell’ultimo episodio) ci mancherà, ma giacché il team degli sceneggiatori resterà invariato siamo certi di poterci aspettare una quinta stagione assolutamente all’altezza.
Inizia l’attesa, e intanto riecheggia in testa quell’ultima frase: “Noi non subiamo il terrore. Noi creiamo il terrore”. Brividi.