In un’intervista concessa un paio di anni fa alla rivista culturale Micromega, Saverio Costanzo (La solitudine dei numeri primi), nonostante abbia lavorato alla trasposizione italiana della serie televisiva In Treatment, parlava del ruolo odierno della tv contemporanea con toni estremamente negativi e sprezzanti, affermando che la televisione, a differenza del cinema, non riuscirà mai ad entrare nell’immaginario collettivo perché “queste celebratissime serie televisive non hanno alcuna profondità intellettuale: in una parola, non riescono a diventare immagine. Mai. Non riescono a diventare immagine per chi le guarda, e così non ce la fanno a diventare davvero immortali, nell’immaginario individuale o collettivo.”; secondo Costanzo l’immagine è “atmosfera, personaggio, drammaturgia. E poi quel qualcosa in più che lo spettatore riceve, e a propria volta riempie, allo scopo di un cambiamento, o almeno di una messa in discussione del punto di vista abituale sulle cose e le questioni di vita”.
Peccato però che la seconda affermazione di Costanzo involontariamente smentisca la prima, perché, con buona pace della prosopopea del regista, nella sua definizione di ‘immagine’ rientrano perfettamente molti prodotti televisivi: True Detective, Mad Men, Game of Thrones, Boardwalk Empire, The Americans, Fargo, Hannibal, House of Cards, Black Mirror (solo per citarne alcuni). Ognuno di questi show, per chi lo abbia visto, riporta alla mente un intero mondo narrativo con i suoi personaggi, le sue atmosfere e la sua drammaturgia. E la stessa cosa ovviamente fa Breaking Bad. La serie di Vince Gilligan era tanto iconica e suscitava un tale coinvolgimento da riuscire a reclamare una sua unicità nell’intera storia del cinema e della televisione, e, a distanza di tre anni dalla sua conclusione, è ancora amata e rimpianta dal pubblico.
Ecco, chiarita l’importanza della ‘serie madre’, possiamo dire che Better Call Saul riesce nella difficilissima impresa di non farla rimpiangere: lo spinoff/prequel dedicato a Jimmy McGill (diventato poi famoso come Saul Goodman) ha la capacità di riportarci all’interno dell’universo di Breaking Bad come se lo splendido prodotto AMC non fosse mai veramente finito.
In questa seconda stagione Better Call Saul si consacra definitivamente come show che vive di vita propria, emancipandosi dal ruolo di “semplice” spinoff di Breaking Bad.
Jimmy (uno strepitoso Bob Odenkirk) accetta, per amore di Kim (una bravissima Rhea Seehorn, in odore di Emmy), di lavorare nello studio legale Davis & Main per continuare ad occuparsi della class action Sandpiper ma, sempre più insofferente nei confronti della rigidità e delle regole dello studio (qui comincia ad emergere in modo chiaro quello che diventerà il futuro Saul Goodman), mollerà tutto e proporrà alla sua amata di lasciare la HHM e di mettersi in proprio diventando soci; Kim accetterà, ma ad una condizione: condivideranno sì gli uffici ma lavoreranno non come studio associato ma come due avvocati indipendenti. A rovinare questo idillio però ci penserà Chuck (Michael McKean), che, pieno di rancore nei confronti del fratello Jimmy, cercherà di intralciare tutte le iniziative dei due minacciando addirittura di rivolgersi alla giustizia per metterli nei guai (per colpa di alcuni comportamenti non proprio legali di Jimmy) ma rischiando in un’occasione di rimetterci quasi la pelle. Parallelamente a tutto questo procede per la sua strada la storyline di Mike (Jonathan Banks): il fixer più famoso della televisione avrà a che fare nel corso della stagione con la famiglia Salamanca, prima con Tuco e poi con Hector; nel momento però in cui si sta preparando ad uccidere il patriarca interpretato dal grande Mark Margolis qualcuno, con un messaggio anonimo, gli suggerisce di non farlo (non viene rivelato chi, ma tutti gli indizi portano a Gus Fring).
Dopo due stagioni di Better Call Saul, gli showrunner della serie ci hanno fatto capire una cosa ben precisa: il personaggio di Jimmy McGill è un character molto più ambiguo di Walter White.
Se Walter White è diventato Heisenberg solo a partire dal momento in cui gli viene diagnosticato il cancro (pur essendo un uomo pieno di rabbia repressa, prima di allora non aveva mai compiuto atti illeciti), alcuni flashback della prima e soprattutto della seconda stagione di BCS ci fanno vedere come invece Jimmy, sin da quando era ragazzino, avesse una certa predisposizione a delinquere e a raggirare il prossimo; gli unici motivi che non permettono alla ‘maschera’ Saul Goodman di prendere totalmente il controllo di Jimmy sono l’amore incondizionato nei confronti di Kim e la grande ammirazione e rivalità nei confronti del fratello Chuck. Il merito maggiore di due grandi sceneggiatori come Vince Gilligan e Peter Gould è quello di regalarci un ritratto di un personaggio meravigliosamente tragico e ricco di molteplici sfaccettature, molto lontano dalla splendida ‘macchietta’ vista in Breaking Bad. Non che non si rida in Better Call Saul, anzi: ci sono almeno una decina di situazioni dove il lato comico ‘alla Saul’ esce fuori nel migliore dei modi, ma il dramma e la commedia, nel corso della stagione, sono sempre incredibilmente dosati. Anche Mike, che è di fatto il co-protagonista di BCS, ci regala in questa stagione dei grandi momenti (memorabili sono i due confronti con Tuco ed Hector) ma il suo character è quello più statico e meno sorprendente (in poche parole, è lo stesso Mike di BB).
Splendidamente scritti sono poi anche gli altri personaggi che ruotano attorno a Jimmy come Chuck ma soprattutto l’altro grande personaggio di Better Call Saul: Kim Wexler.
Il panorama televisivo americano è pieno di figure femminili carismatiche e molto forti, ma Kim si trova su un gradino sopra le altre per un semplice motivo: il suo personaggio vive in una realtà contemporanea ed assolutamente realistica, tale da permettere alle spettatrici di immedesimarsi in pieno. Qui non ci sono mondi distopici, ambientazioni fantasy o vintage, quartieri criminali e malfamati: Kim è un avvocato di talento che vuole farsi strada in una città perfettamente normale come Albuquerque (ma potrebbe essere New York, Roma o Milano, il discorso non cambierebbe) e tutte le decisioni che prende sono frutto unicamente della sua volontà, battendosi come una leonessa per arrivare a raggiungere il suo obiettivo che è quello di non dipendere più da nessuno sia dal punto di vista professionale che personale (negli Stati Uniti qualcuno è arrivato a definire Better Call Saul come lo show più femminista in circolazione, probabilmente a ragione). Il suo rapporto con Jimmy poi funziona alla grande per il fatto che la loro relazione, agli occhi dei telespettatori, è autentica, credibile e non scontata; in fondo loro due si piacciono perché in realtà sono molto simili (sono intelligenti, brillanti e ferocemente motivati) e sanno benissimo cosa vogliono (facendo così dimenticare a Kim tutti i difetti di Jimmy).
Già rinnovato da AMC per una terza stagione, lo splendido prodotto di Gilligan e Gould continua, con il suo stile narrativo inconfondibile, a convincere e a stupire coloro che non credevano possibile poter replicare l’altissima qualità della serie madre perché, nonostante siano due serie diversissime tra loro, Better Call Saul è agli stessi livelli di Breaking Bad.