La compianta Hannah Arendt menzionò La banalità del male nel titolo del suo celebre resoconto del processo al criminale nazista Adolf Eichmann, creando così l’intestazione più banalizzata e citata a sproposito della modernità (non ci sentiamo di sottrarci a questa consuetudine) ma condensando in pochissime parole il senso profondo dietro la ‘comprensione’ delle meccaniche sociali e antropologiche che generarono gli orrori nazisti.
La storia tende infatti a cristallizzarsi spontaneamente in solenni semplificazioni, ma l’agghiacciante verità è che dietro le torture spietate e lo sterminio programmato non c’era un astratto e sovrumano ‘male assoluto’, ma uomini ‘come noi’, uomini ‘normali’.
Nel racconto dei crimini nazisti, per un narratore, la restituzione della quotidiana banalità che ha mosso quegli eventi mostruosi è la strada più difficile e meno battuta. Alcuni si sono cimentati in questa ostica operazione – tra quelli che preferiamo spiccano l’Hirschbiegel di La Caduta (2004) e soprattutto il Sokurov di Moloch (1999) – ma se restringiamo il campo a chi ha deciso di usare l’ironia per raccontare la pochezza umana delle ‘icone’ naziste, la casistica è ben più esigua.
IL DIFFICILE RAPPORTO TRA CINEMA COMICO E NARRAZIONE DEL NAZISMO
Charlie Chaplin ne Il grande dittatore (1940) e Ernst Lubitsch in Vogliamo vivere! (1942) affidano la critica al registro comico, ma il Führer era ancora attualità e non storia. Se trascuriamo qualche sporadico episodio, prima che si torni con una certa leggerezza sull’argomento dobbiamo poi contare decenni. A cavallo tra gli anni ’60 e ’70 infrangono il tabù Mel Brooks in Per favore, non toccate le vecchiette (1968) e John Cleese negli sketch del Monty Python’s Flying Circus. Si inaugura quindi un filone parodistico spesso tutt’altro che indimenticabile, che passa – tra gli altri – per il Peter Sellers di Soffici letti, dure battaglie (1974) ma anche per il ben più trascurabile Franco Franchi di Il sergente Rompiglioni diventa… caporale (1975) e i Castellano e Pipolo di Zio Adolfo in arte Führer (1978). Trascorrono anche gli anni ’80 e Hitler, addirittura antagonista di Indiana Jones, viene sovente restituito come una macchietta. Il primo e infelicissimo tentativo degno di nota di restituirgli uno spessore comico è con l’imbarazzante sit-com inglese Heil Honey, I’m Home! (1990), chiusa dopo un solo episodio per l’incredibile cattivo gusto dei suoi sketch. A pochi anni di distanza, con molto più tatto, torna a ridere amaramente del nazismo il nostro Roberto Benigni con La vita è bella (1997) – premiato con tre Oscar – e poi Mihaileanu con Train de Vie (1998); però è solo un decennio più tardi che la Germania stessa riesce a schernire apertamente quel periodo, con il brillante e spiazzante Mein Führer (2007) del regista e sceneggiatore svizzero di religione ebraica Dani Levy. Un piccolo capolavoro.
Questa progressiva decostruzione comica del nazismo (di cui per brevità tralasciamo diversi passaggi) ha contribuito a rielaborare il dolore collettivo ma non sempre ha fatto un buon servizio alla memoria comune. Infatti il progressivo consolidamento della maschera comica del ‘Nazista’, villain disumano, grottesco e ridicolo, finisce per scollegare sempre più la cronologia storica dal contesto sociale che l’ha resa possibile. Hitler diventa così l’avversario da sconfiggere nei videogiochi, diventa un meme virale (NEIN, NEIN, NEIN!), viene ucciso da Quentin Tarantino e appare come antagonista per antonomasia nel trash nordeuropeo (Dead Snow, Iron Sky, Kung fury etc.). Eppure con questa normalizzazione – a tratti inevitabile – si separano gli spettri di un passato sempre più bidimensionale da un presente ancora pregno di xenofobia, intolleranza e nazionalismi.
LUI È TORNATO: DAL LIBRO AL FILM
Poi nel 2012 arriva Timur Vermes con il suo romanzo Lui è tornato, un caso letterario che sconvolge il mercato editoriale tedesco e mondiale. Vermes ha la geniale intuizione di chiedersi cosa accadrebbe se l’Hitler del 1945 si materializzasse dal nulla nella Germania di oggi. Nella sua graffiante satira le risate sono onnipresenti e tutt’altro che polverose, eppure abbiamo finalmente uno sguardo profondo sul terreno fertile che nutrì il nazismo, sorprendentemente affine alla contemporaneità. Il libro tasta il polso alla Germania (e all’Europa) di oggi e al contempo accompagna l’intuizione comica a una meticolosa appendice di documentazione storica. Un’operazione notevole.
La narrazione è affidata in prima persona a un Hitler che, solo inizialmente spiazzato, si trasforma in un camaleonte capace di assecondare la pancia di nostalgici e insospettabili e riscuotere nell’opinione pubblica un pericolosissimo seguito quasi plebiscitario.
Inevitabile la trasposizione cinematografica, e infatti David Wendt dirige e co-sceneggia nel 2015 l’omonima pellicola, in questi giorni nelle sale italiane per un passaggio-lampo ma disponibile in contemporanea sulla piattaforma di Netflix. Gli ingredienti per un film memorabile ci sono tutti, eppure, a dispetto di ogni aspettativa, il risultato è ben lontano dall’essere accettabile.
Oliver Masucci, nei panni del dittatore, offre un’interpretazione di rara freschezza: credibile, irresistibile e agghiacciante; però non basta. Lo sguardo di Hitler sul mondo di oggi dovrebbe aiutarci a sorprendere noi stessi e a fare autocritica, eppure tutto quel che il cineasta riesce a inanellare è una serie di banalità lapalissiane (e no, la Arendt qui non c’entra niente). La sceneggiatura è infatti il primo problema di Lui è tornato (2015), e ha l’unico pregio di tratteggiare in modo interessante – seppur non troppo approfondito – l’evoluzione psicologica di un uomo che si vede costretto al cambiamento: da leader indiscutibile cui tutto è dovuto ad anziano politico che accetta il dileggio pur di avvicinarsi al proprio popolo fino al punto di conquistarlo e condizionarne l’opinione pubblica.
D’altro canto lo script fallisce laddove il libro eccelleva, cioè nel creare un’immedesimazione disturbante, un’amalgama perfetta e spiazzante di empatia e disprezzo.
Di quel miracoloso equilibrio non c’è traccia nel film, e al suo posto troviamo un fastidioso eccesso di opposti. La denuncia implicita si svilupperebbe naturalmente, col progredire della pellicola, in particolar modo quando a interagire e simpatizzare col protagonista sono i berlinesi comuni (parte del girato è un ‘candid movie’); quando però la condanna si vuole fare esplicita e sottolineata dalle inconsistenti velleità artistiche del regista, il risultato diventa stucchevole, retorico e didascalico. A dispetto di ciò il lungometraggio è troppo spesso smaccatamente acritico e neutrale nel ‘documentare’ le simpatie politiche verso le idee del Führer, e si ha la fastidiosa impressione che con il pretesto del ‘reportage’ la produzione abbia deciso di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ammiccando a quella gran fetta di pubblico tedesco (e non solo) che tutto sommato non è così in disaccordo con le tesi del dittatore. Una manovra furba per intercettare il pubblico più ampio possibile ma gestita in modo grossolano e spudorato.
Veniamo poi alla realizzazione tecnica. Su quella il giudizio è molto meno sfumato. La regia è priva di ogni benché minima idea di ritmo e la sceneggiatura è tautologica allo sfinimento. Con una stanca e lenta ripetizione dei medesimi concetti e situazioni, il film arriva infatti all’inammissibile durata di un’ora e cinquantasei minuti. E pensare che un buon pubblicitario avrebbe potuto dire le stesse cose nello spazio di 30 secondi.
Le idee satiriche, pur divertenti le prime due o tre volte, diventano facilmente intollerabili all’ennesima riproposizione; gli ‘spiegoni’ sono degni degli sceneggiatori di Boris; i tempi morti innumerevoli. L’umanizzazione – in senso neutro – che sarebbe lecito aspettarsi dal film è superficiale e prevedibile, e considerato che la personalità di Hitler si sarebbe prestata a una lettura ben più caustica e complessa (un leader bisessuale, incestuoso, dipendente da farmaci e droghe, vegetariano, ossessionato dal misticismo) risulta sorprendentemente politically correct.
Nota a parte merita la mise en abîme finale: Wendt si fa prendere dall’entusiasmo e gioca a fare il Charlie Kaufman, ma si muove sulla celluloide come un elefante in una cristalleria.
In conclusione il soggetto di Lui è tornato è quanto di più interessante si sia visto sul tema da molti anni a questa parte, ma vi consigliamo di recuperarlo solo sulla pagina scritta e non sul grande schermo. Magari Wendt sembrava la scelta ideale alla regia, dato che i suoi due ‘successi’ sono un film shock (Wetlands) e uno sul neonazismo (Combat Girls); ma in questi casi i conti non sempre tornano. Sarebbe stato interessante invece se la demitizzazione del dittatore avesse avuto un tono affine a quello con cui Woody Allen smonta i grandi intellettuali del passato in Midnight in Paris. Un’occasione persa.