Parafrasando il titolo di un film che amo, mi piace pensare che il regista danese Thomas Vinterberg, nel silenzio del suo studio, si definisca così: “Il Dottor Vinterberg. Ovvero: come imparai a non preoccuparmi del Dogma e ad amare il cinema.” Se cresci all’ombra di un gigante ingombrante dalle fattezze di Lars Von Trier il percorso personale di maturazione artistica ne può risentire. Torniamo al 1995, anno in cui i due registi fondano il movimento Dogma 95, un manifesto culturale spesso definito anche voto di castità, con il quale si legavano a un’idea di cinema ‘purificato’ da scenografia, colonna sonora, luci, carrelli e chi più ne ha più ne metta. In realtà ognuno interpretò a modo suo il decalogo di questo manifesto, spesso non rispettandolo in toto, ma generando comunque una lunga onda mediatica che rese popolare questo movimento.
Vinterbeg nel 1998 si aggiudica il premio della giuria a Cannes con Festen, ad oggi ancora considerato il suo capolavoro. Pellicola girata interamente con una telecamera a spalla che si insinua in una terrificante realtà familiare riuscendo in pieno a trasmettere le atrocità dei contesti domestici conditi da atmosfere festive; un pugno in faccia, un film disturbante che vorresti finisca il prima possibile ma dal quale non riesci a distogliere lo sguardo. Dopo questo exploit, consacrato dalla critica, il danese sembra smarrire la via maestra della sua arte, inanellando, complice anche una parentesi hollywoodiana, una serie di film francamente evitabili: Le forze del destino, Dear Wendy, Riunione di famiglia, che risultano opere scialbe e lontane anni luce dalla potenza di Festen.
Bisogna attendere il 2012 per ammirarlo di nuovo nel sorprendente Il Sospetto, film in cui riesce a far esplodere il talento di Mads Mikkelsen (il caro e amabile Hannibal dell’omonima serie), donandoci un racconto su un presunto abuso minorile che gela letteralmente il sangue. Si ha l’impressione che Vinterberg si sia finalmente emancipato da alcuni vincoli stilistici che per troppo tempo lo hanno attanagliato, riuscendo ad esprimere la sua maestria scevro da imposizioni dogmatiche che ne minavano la libertà creativa.
Questo trend positivo è espresso anche nella sua ultima fatica del 2016, La Comune, in cui racconta la società danese degli anni ’70 attraverso un gruppo variegato di persone che decidono di vivere sotto lo stesso tetto. Il dato di fatto che emerge incontrovertibile è una sorta di patteggiamento artistico, un do ut des raggiunto con la sua musa ispiratrice: rinunciando alla freddezza glaciale degli esordi e all’inconsistenza emotiva delle opere di mezzo Vinterberg giunge ad una solidità conclamata del linguaggio filmico e riesce nell’impresa tutt’altro che scontata di raccontare le controversie di una società, quella scandinava, che sotto l’apparente glacialità ribolle di dinamiche emotive strabordanti. L’augurio è che dopo essere tornato nella sua amata Europa Vinterberg continui a deliziarci con un cinema in cui la componente di “reitziana” memoria diventi la sua cifra stilistica.
Il cinema di Thomas Vinterberg
La storia di un percorso che parte dal manifesto artistico con Lars Von Trier e arriva al cinema maturo de Il Sospetto e La Comune.