Cosa succede quando due tipi diversi di ‘pazzia’ si incontrano? Lo racconta Paolo Virzì ne La pazza gioia, la sua ultima fatica presentata alla quinzane des rèalisateurs, sezione parallela del (fortunatissimo) festival di Cannes. Due mesi fa avevamo pronosticato che sarebbe stato in concorso, eppure Cannes non sbaglia: a La pazza gioia manca qualcosa, il quid che avrebbe fatto del film di Virzì un concorrente pericoloso, almeno per un certain regard.
Si riparte da Il capitale umano. Virzì apre il film con una sequenza frammentata, nella quale vediamo un passeggino, delle rotaie, delle mani, un alto parapetto con sotto dell’acqua, poi una rapida transizione ci porta a Villa Biondi, una casa di cura per ‘matti’. Come nel film del 2013, il regista livornese apre il film con una captatio benevolentiæ che funzionava allora e risulta un po’ semplicistica questa volta. Non ci sono colpevoli da identificare o un caso da risolvere , c’è solo un tarlo da infilare, un po’ a forza, nella mente dello spettatore. Tuttavia i trucchi, nel cinema, fanno parte del “patto col diavolo” che tanto stava a cuore a Truffaut, si accetta tutto e si aspetta la fine.
Nella clinica troviamo la contessa Beatrice Morandini Valdirana, una donna insopportabile che dà ordini a tutti e si vanta di essere una grande amica di Silvio Berlusconi, interpretata da una delle ‘migliori’ Valeria Bruni Tedeschi, perfettamente inquadrata da Virzì: è ancora la Carla Bernaschi de Il capitale umano che si comporta come la Cate Blanchett di Blue Jasmine.
La contessa diverrà amica di una ragazza tatuata e ribelle che ascolta sempre Senza fine di Gino Paoli, Donatella Morelli, interpretata da Micaela Ramazzotti, drasticamente dimagrita per il film. Entrambe non conoscono il passato dell’altra e in comune hanno solo una disperata voglia di evadere e di cercare la felicità. Un pomeriggio, grazie ad un contrattempo, riusciranno a scappare. Da lì in poi la storia diventa una sorta di Odissea in cui vengono inseguite dal personale della clinica ( “Ma che siamo in un film dei fratelli Coen?”), disperato per quello che le due potrebbero fare.
Le loro menti sembrano apparentemente inconciliabili. La Ramazzotti è una depressa come la Justine di Melancholia, rappresenta un tipo di infermità mentale che tende all’introversione e al silenzio, mentre “la contessa” ha una lingua instancabile e rassomiglia più alla “locura”, ovvero ad un tipo di comportamento senza logica e senza controllo, che la porta, per esempio, a fingere di essere la dottoressa direttrice della clinica nelle prime scene. Più la Bruni Tedeschi si scosta i capelli per mostrare il viso, più la Ramazzotti lo nasconde sotto delle ciocche unte che le cadono fino al mento, la prima si muove continuamente e parla e la seconda è statica e muta, come una statua all’apparenza fredda e disillusa.
La sceneggiatura gioca bene con il carattere delle due donne, mantenendole sempre nel personaggio, riuscendo a giustificare le avventure un po’ assurde e sicuramente folli delle due.
Oltre al piano sequenza con cui viene introdotta la contessa, Virzì opta per una telecamera a mano, rifiutando inquadrature statiche o troppo lente, preferendo un montaggio rapido, quasi istantaneo, per mettere in risalto la componente avventuristica della vicenda.
La Bruni Tedeschi è sempre credibile, mai caricaturale o eccessiva, mai pacata e sempre piena di energia e follia, scaltra ed egoista, ma scritta abbastanza bene da creare empatia col pubblico. Laddove non era riuscito “il ballerino” di Veloce come il vento riesce la contessa. Donatella Morelli sembra un po’ più debole, quasi trascurata, nonostante la ‘materia’ del film dovrebbe essere proprio la sua storia e la sua depressione, ma la colpa, per non essere fraintesi, non è assolutamente della Ramazzotti, sempre più “attrice” e meno “bellezza” e convincente nelle scene che Virzì e la Archibugi le hanno concesso.
Il senso di incombenza e di avvenimento è sempre presente, aleggia sin dai primi minuti. Qualcosa succederà, lo sappiamo e lo attendiamo. Ma allora cosa manca davvero al film di Virzì?
Il problema è l’attesa dell’accadimento. Per troppo tempo lo script progetta senza costruire, fino a rivelarsi a noi come una classica commedia in tre atti. Quella commedia in cui appena il clima diventa sereno avviene una crisi, della quale le due protagoniste dovranno prendersi cura per tornare allo stato positivo. Ma il problema non è la mancanza di Francesco Bruni e Francesco Piccolo in fase di sceneggiatura, poiché la qualità dello script è indubbiamente elevata, il guaio, se di guaio si può parlare, è la scelta in sede di sceneggiatura.
“La leggerezza è una tentazione irresistibile” , così diceva Caine a Paul Dano in Youth e così sembra quasi dire Virzì allo spettatore. La pellicola è costruita benissimo, su questo non si può dire nulla: la sceneggiatura, la regia, la fotografia, le musiche e le interpretazione. Tutto è ben realizzato e si vede che il lavoro è fatto da un gruppo che si conosce, che lavora come una famiglia e l’alchimia sui set è storicamente fondamentale.
Come in Perfetti sconosciuti a lasciare l’amaro in bocca ci pensa il finale. Un finale “leggero”, che ha paura di osare e deludere, che si intimorisce dinnanzi alla scelta fatidica: regalare due lacrime “leggere” oppure “distruggere” lo spettatore?
Ancora una volta gli eserciti si dividono. Una schiera preferisce la leggerezza mentre l’altra spera in un finale cupo, un po’ nichilista, che affronti la morte con più coraggio. Lo scisma fra le parte ha diviso, divide e dividerà per sempre gli appassionati di cinema e non, lo spettatore occasionale e il critico.
Una sola cosa è certa: Tutto è bene quel che non finisce male.
La Pazza Gioia: Virzì tentato dalla leggerezza
Il nuovo film di Virzi con Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti racconta una storia di disagio mentale e non convince del tutto.