L’horror è sicuramente uno dei generi cinematografici più bistrattati di sempre. La sua impopolarità è probabilmente da attribuire a quella del sentimento che genera – o almeno dovrebbe –, ovvero la paura. Nessuno si fa problemi ad ammettere di aver riso o anche pianto con un film, ma quanti ammettono candidamente di esserne rimasti terrorizzati?
Sebbene il genere vanti capolavori capaci di segnare la storia del cinema (La Cosa e Psycho, per citarne giusto un paio), è anche gremito di alcune delle peggiori pellicole mai esistite (Manos, Trolls 2, Birdemic sono quasi dei ‘cult’) e in particolare negli ultimi anni non sembra aver dato vita a produzioni nel migliore dei casi trascurabili.
A ben vedere qualche rarissima eccezione c’è stata: l’arrivo dell’accaldatissimo Babadook ha fatto gridare molti al miracolo e, rinnovando la fiducia nel genere, ha spianato la strada a tante altre produzioni minori ma di buona fattura come 10 Cloverfield Lane, Southbound e Creep.
Mentre i film appena citati sono passati un po’ in sordina qui in Italia (il primo è stato distribuito in poche sale, Creep è un esclusiva Netflix e Southbound è ancora inedito nel nostro paese), The Boy è stato oggetto di una massiva campagna tesa a pubblicizzarlo come un capolavoro del cinema horror. A dispetto delle strategie della distribuzione, il film è passato a dir poco in secondo piano nell’editoria di settore e sul web, a indicare come probabilmente sia stato incapace di catalizzare tanto giudizi entusiastici quanto stroncature. E sapete cos’è peggio di un brutto film? Un film nullo, di quelli che scivolano via nell’indifferenza.
The Boy, uscito nelle nostre sale il 12 Maggio, non è solo un’esperienza dimenticabile ma è uno spreco di 100 minuti della vostra vita.
Sia chiaro: non è un film completamente pessimo e inizialmente la regia e la sceneggiatura offrono spunti più che apprezzabili, tuttavia la pellicola prende presto una direzione fin troppo ‘scolastica’, tanto da sembrare opera di uno studente non troppo brillante appena uscito dal DAMS. “È bravo ma non si applica”, sembra gridare una voce durante la proiezione, ma poi ci rendiamo conto che sono solo le chiassose chiacchiere e risate dei ragazzini accorsi alla proiezione. È qui che capisci il potenziale valore sociale della superviolenza.
William Brent Bell non è sicuramente un regista eccezionale, ma ha indubbiamente un certo estro e una mano elegante, dei quali in questo film si sospetta a stento l’esistenza. In tutto questa vacuità, “qual è la trama?”, direte voi.
Greta (Lauren Cohan, la Maggie di The Walking Dead) è una giovane donna americana in fuga da un passato travagliato, che accetta un lavoro come tata in una vecchia villa inglese durante la partenza dei suoi proprietari. Se l’atmosfera sembra già gridare al cliché, scopriamo con sorpresa che Brahms, figlio dei ricchissimi datori di lavoro della protagonista, è in realtà una bambola di porcellana a grandezza naturale, che i genitori curano e amano come se fosse un bambino vero. Greta, nonostante le esitazioni iniziali, decide di accettare il lavoro, rimanendo sola in un ‘castelletto’ perso nelle campagne anglosassoni in compagnia dell’inquietante oggetto che – non spoileriamo – potrebbe essere posseduto.
Anche qui, nei primi minuti, tutto sembra filare liscio: la sceneggiatura, nella sua semplicità, sembra essere funzionale, la recitazione e i passaggi da una scena all’altra sono buoni, anche le caratterizzazioni sono ben curate ed introdotte con intelligente minimalismo, ma come la saga di Twilight c’ha insegnato, i film che si incentrano sulla relazione con una bambola inespressiva raramente funzionano. In compenso, attirano molti fastidiosissimi individui pre-puberali in sala.
Man mano che la storia inserisce elementi sovrannaturali, la volontà di sorprendere lo spettatore si sostituisce alla caratterizzazione dei personaggi, che perdono di credibilità e inciampano goffamente nel tentativo di seguire uno screenplay che sembra più un campo minato. Sul finale, il film cerca disperatamente di risollevarsi con un approccio più ‘fresco’ al genere, ma facendolo mette ancora più in risalto cosa ne è rimasto dei personaggi e della loro scrittura, ormai inequivocabilmente inaccettabile, e si mostra per quello che è: un opera mediocre.
Mi piace pensare che l’incontrollabile proliferare di pessimi horror non sia causato dall’idiozia umana (sarebbe troppo duro da accettare), ma piuttosto da uno spirito soprannaturale che agisce sulla mente della maggior parte dei cineasti impegnati nella realizzazione di film ‘di paura’, annebbiandone il giudizio. Ne esiste uno per ogni sotto-categoria cinematografica, ognuno dei quali viaggia di paese in paese, possedendo le anime dei creativi e rovinando una moltitudine di progetti a dispetto di ogni ottimo presupposto, causando il famigerato “effetto Joel Schumacher”. Babadook si è salvato perché sotto la giurisdizione del protettorato cinematografico australiano, lo stesso che ha difeso la produzione di Mad Max: Fury Road.
Se la potenza dell’orrore dovrebbe essere quella di una tormenta gelida in grado di penetrarci nelle ossa, l’unica cosa che questo film riesce a generare è una lieve brezza estiva, capace al massimo di cullarci mentre ci addormentiamo, magari nella speranza di sognare un film migliore, o di essere rimasti a casa.
Per la cronaca, anche la bambola recita male.
The Boy: una sceneggiatura da brividi
Il soggetto potrebbe dar vita a un horror capace di non deludere le aspettative, ma la noia e la banalità sono il terrore più grande.