Era il 1996 quando Paul Dédalus comparve per la prima volta nel cinema di Arnaud Desplechin. Allora il personaggio del regista francese era un filosofo interpretato da Mathieu Amalric e il film era Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle). Riapparve poi bambino durante una sorta di flashback in Racconto di Natale (2008) e dopo diciannove anni lo ritroviamo di nuovo, stavolta come antropologo, in I miei giorni più belli, ultimo film di Desplechin e sempre interpretato da Mathieu Amalric.
Il titolo con cui arriva nelle sale italiane una volta tanto non fa proprio a cazzotti con l’originale che è Trois souvenirs de ma jeunesse (tre ricordi della mia giovinezza) ma è chiaro che se il regista gli ha dato quel titolo almeno tre motivi ci saranno pure stati. E in effetti la pellicola racconta, sviluppandosi in capitoli (Infanzia, Russia, Esther ed Epilogo) tre periodi legati alla giovinezza di Paul Dédalus: dal suicidio della madre, al travolgente amore per Esther, passando per il legame con la professoressa Behanzin, sua insegnante di Antropologia, al viaggio a Minsk per aiutare segretamente l’espatrio in Israele di ebrei russi.
Paul Dédalus è chiaramente l’alter ego del regista, il quale in questa ultima opera si avvale del personaggio anche per spaziare dentro il suo cinema. Un cinema in parte già esplorato dai grandi maestri del passato ma che Arnaud Desplechin elabora in maniera del tutto personale e originale, percorrendo generi diversi ma con la stessa intensità formale e sostanziale. I movimenti spazio-temporali sono tanti e significativi per una storia che riflette anche sul tempo. L’abilità di Desplechin è stata quella di legare tutte le fasi del film senza creare vuoti, cali di tensione, incongruenze e senza rinunciare all’analisi e all’approfondimento dei luoghi dell’anima dei protagonisti e dei loro orizzonti psicologici. In ogni fotogramma si respira una grande capacità di introspezione. Non ci vuole molto a capire che riprendere dopo diciannove anni il racconto di Paul Dédalus non è semplicemente un vezzo ma per il regista francese è (e forse lo sarà ancora) un’esigenza. L’esigenza di raccontarsi attraverso una narrazione solo apparentemente scollegata. Se pensate che sia un’operazione spericolata, al contrario, vi stupirete della credibilità di un personaggio così diverso ma così uguale in ogni film. Non vi sorprenderà, ad esempio, che il bambino che prega con le parole “Dio, se mi ami non farti vedere, ti supplico. Fa che io non creda in te” possa aver smesso i panni del Dédalus filosofo ed essere diventato il Dédalus antropologo.
Poi c’è il grande capitolo di Esther (interpretata da Lou Roy-Lecollinet), l’amore della sua vita. La ragazza a cui tutti fanno la corte e che tutti desiderano, quella apparentemente sicura di sé, della sua bellezza, della sua intelligenza, della sua studiata civetteria. Esther è il grande amore. L’amore che fa sentire uguali e diversi, che tradisce e che è tradito, che aspetta, rincorre, soffre ma che poi ti fa aspettare, rincorrere, soffrire. L’amore che ti porta sulla luna e che ti fa sprofondare sotto terra, quello che ti fa vincere contro il mondo e che ti fa perdere perché ti acceca. Quello che ti crea relazioni e quello che te le fa perdere perfino con gli amici d’infanzia. Esther e Paul, si assaggiano, si conoscono e si scoprono forti e fragili come persone e come coppia. La ragazza che a Roubaix (città dove risiedono i personaggi e città natale di Desplechin) è la regina dell’emancipazione femminile, quando ha il suo primo rapporto sessuale si vergogna e vuole spegnere la luce, dissimulando esattamente in quel momento tutte le sue insicurezze. Paul da parte sua continua a rimuovere tutti i macigni che trova sulla sua strada ma a lei chiede di non contare sulla sua forza “perché serve a me stesso”. Ed è così che si avviano a un’infinita ricerca di identità. Quella di Esther smarrita da un letto all’altro nelle lunghe assenze del ragazzo, quella di Paul perfino ceduta ad un ebreo russo regalandogli il passaporto. Infine la ricerca d’identità di coppia, che si sviluppa e si perde attraverso un intenso rapporto epistolare o nel mito, evocato nella pellicola, di Diana e Atteone, narrato da Ovidio nelle Metamorfosi (Atteone vede le nudità di Diana mentre fa un bagno ed essa, accortasi, lo trasforma in cervo e lo fa sbranare dai cani di lui).
Buona la prova degli attori, in particolare della giovane Lou Roy-Lecollinet e di Mathieu Amalric, che ha lavorato anche nel precedente film di Desplechin, Jimmy P. (2013), i n cui ha dato vita ad un’altra grande prova insieme ad uno straordinario Benicio del Toro. Di I miei giorni più belli ottime sia la sceneggiatura che la regia, Il montaggio invece non sempre è all’altezza. La visone registica di Desplechin percorre senza problemi e senza alcun cedimento i territori della commedia, del dramma, dello spy, del teen movie, dell’egopic e del grande cinema di formazione. Se avesse evitato un leggero abuso della voce narrante forse ne avrebbe guadagnato ancora di più.
I miei giorni più belli: ricordi di gioventù
Il cineasta francese Arnaud Desplechin indaga dentro se stesso ripercorrendo tre precisi ricordi e spaziando tra i generi.