Janus ricorda l’isola de L’avventura: è verde, maestosa, lontana, isolata, attraversata dalla roccia e, a differenza di quella di Antonioni, è tormentata da venti e piogge fortissimi, durante i quali le barche che attraversano le acque australiane possono fare affidamento solo alla luce del faro che si erge maestosa tra gli oceani.
Tom (Michael Fassbender) deve mantenere la luce sempre accesa tutta la notte, mentre la giovane e bella moglie (Alicia Vikander) lo attende impaziente nella loro piccola casa sull’isola. Jake ed Elwood hanno visto la “luce”, così come Cianfrance conferma di averla persa. Come un tuono è stato la profezia e The Light Between Oceans il suo avverarsi.
Al suo quarto lungometraggio, Cianfrance sembra già stanco e annoiato, tanto da confezionare un prodotto pigro, senza energia, superato e manierista, con qualche forzatura e con un solo, tedioso obiettivo che il film non smette mai di suggerirci: “piangete”.
La pellicola si apre come shining: Fassbender, reduce della prima guerra mondiale, vuole allontanarsi dalla vita e diventare il guardino del faro. Il sindaco, allora, lo mette a conoscenza della tragica sorte dell’ultimo guardiano e di quanto sia difficile sopravvivere su un’isola sperduta durante il gelido inverno australiano.
Kubrick ci ha costruito un film e Cianfrance se ne scorda; dopo qualche piano lunghissimo dell’isola e sparute sequenze di tempeste, ci siamo già scordati del fattore “isolamento”.
La storia prosegue con l’innamoramento della Vikander e di Fassbender, i quali passano da sconosciuti a coniugi tramite una conversazione, nella quale la giovane svedese convince Tom a sposarla per potersi allontanare dalla famiglia e assaporare la vita sull’isola; lo stesso espediente de La sposa turca, per intenderci.
Dopo due aborti spontanei, recitati in modo ridicolo dalla Vikander, la coppia riceve, quasi in dono, dal mare, una barca sulla quale si trova la bambina in fasce che darà il via alla trama principale.
The light between oceans è il miglior esempio di occasione sprecata: in un’era come la nostra, nella quale il diventare genitori, fra maternità “surrogata” e il più recente “fertility day”, è diventato uno dei temi più discussi, sarebbe stato interessante vedere un film in grado di affrontare il tema sollevando dei veri dubbi morali; cosa vuol dire essere madre? Cosa vuol dire non poter essere madre?
Cianfrance rigetta ogni tipo di ragionamento e sceglie il terreno “più battuto” del melodramma Hollywoodiano che non ci chiede di pensare o ragionare, ma solo di piangere e commuoverci di fronte ad una storia che non ha nessuna potenza drammatica, bensì filosofica.
La colonna sonora di Desplat si rivela subito fiacca e poco incisiva, incapace di aiutare il film a spiccare il volo.
Il lato positivo del film è la fotografia magnifica che riesce a rimanere federe all’illuminazione post prima guerra mondiale, fatta di lampade ad olio e candele accese in ogni angolo della casa.
Derek Cianfrance, come in Come un tuono, cerca di fare un film ambizioso, nel quale vuole raccontare un intreccio abbastanza povero tramite la sua poetica fatta di tempi dilatati, lunghissimi, troppo spesso “morti” e ripetitivi, allungati col solo scopo, come abbiamo già detto, di farci commuovere davanti ad una vicenda che ha un enorme potenziale filosofico ed una pressoché inesistente capacità drammatica.
A Venezia, per ora, vince il cinema commerciale di La la land e Arrival, che schiaccia l’autorismo forzato di Cianfrance grazie al talento di due registi, le quali luci, possiamo dirlo forte, si sono accese luminosissime.
Venezia 73: la recensione in anteprima di The Light Between Oceans
Il melodramma con Michael Fassbender e Alicia Vikander (innamoratisi sul set) ha serissimi problemi di sceneggiatura e di montaggio, ma avrà un suo pubblico.