Per vederlo nelle sale italiane dovrete aspettare il 24 novembre, ma sappiate sin d’ora una cosa: Arrival è altissimo, altissimo cinema. La nuova pellicola di Denis Villeneuve, in gara per il Leone D’Oro e presentata oggi in anteprima mondiale al Festival d’Arte Cinematografica di Venezia, è un racconto di fantascienza incredibilmente ispirato e ambizioso che si candida a essere uno dei migliori (se non il migliore) film della mostra.
La premessa è semplice e apparentemente abusata, ma anche di quelle capaci di fare i grandi numeri al box office. E il film arriva a spingersi molto oltre quel che si intravede nel trailer.
Da un giorno all’altro appaiono, distribuite nei punti nevralgici del pianeta terra, 12 gigantesche astronavi aliene che fluttuano per giorni senza che all’arrivo facciano seguito atti amichevoli o ostili da parte dei ‘visitatori’. Un’attesa metafisica e snervante cui si accompagnano il panico di una popolazione smarrita e la grande incertezza di governi che, mai così divisi, valutano se dover dare il benvenuto con le buone o le cattive.
Sin dall’inizio la pellicola si presenta con atmosfere poetiche e rarefatte – costruite da una fotografia incredibilmente debitrice a quella di Emmanuel Lubezki – che sembrano inedite per il genere. L’ottima Amy Adams, cattedratica esperta in linguistica, si rivela da subito il vero fulcro della pellicola e i momenti dell’annuncio dell’arrivo, con il fiorire di notifiche, le attività quotidiane che si fermano e le persone ipnotizzate davanti ai telegiornali, risultano particolarmente credibili e coinvolgenti, nonostante il cinema li abbia raccontati già altre mille volte. È compito del colonnello interpretato da Forest Whitaker reclutare lei e lo scienziato Jeremy Renner per cercare per conto degli Stati Uniti un canale di comunicazione con i presunti invasori, e se ve lo state chiedendo, sì: gli alieni si vedono e sono decisamente poco antropomorfi.
Considerata la natura del film è impossibile recensirlo a dovere senza svelare punti fondamentali della trama, ma dal momento che vogliamo lasciarvi il piacere di scoprire il film nel buio della sala cinematografica, sappiate solo che quanto detto sino ad ora è poco più che la premessa di un affresco su cosa significhi essere umani, come individui e come specie, in cui la paura e la diffidenza verso quelli che potrebbero essere dei prometei interplanetari (come degli sterminatori) è il filo conduttore di una narrazione tanto avvincente quanto non lineare.
In questo racconto di guerra e pace in cui la natura umana è un pericolo non meno concreto di quello rappresentato dai cugini di Cthulhu venuti dallo spazio, la tensione narrativa gioca un ruolo di primo piano. Villeneuve, assistito al montaggio dal sempre ottimo Joe Walker, lascia respirare la narrazione con tempi piuttosto dilatati, eppure il ritmo narrativo rimane costante e un climax inarrestabile ci accompagna sin dalle prime scene verso un epilogo tutt’altro che prevedibile.
In Arrival c’è di tutto: dal Terrence Malick di The Tree of Life al Christopher Nolan di Interstellar, passando per il Francis Ford Coppola di Un’Altra Giovinezza.
La sceneggiatura di Eric Heisserer (fin qui non proprio un punto di riferimento nel settore) su un soggetto di Ted Chiang (il libro Story of Your Life) ci accompagna per terreni di non facilissima comprensione e che richiederanno qualche sforzo in più a quegli spettatori medi ormai impigriti su blockbuster sempre identici a se stessi, eppure la narrazione – accompagnata da scene spettacolari ma sempre funzionali – non scade mai in una fredda autoreferenzialità e rimane invece profondamente emotiva ed emozionante.
Quel che possiamo dirvi, incuriosendovi abbastanza da farvi andare in sala, è che quello che vi troverete davanti non è un semplice film di fantascienza, ma una riflessione fantasiosa e appassionata di cosa siano l’individualità, l’altruismo e il tempo. Villeneuve è sempre stato un eccellente cineasta, ma con questo lavoro ci consegna un capolavoro di genere e rivendica un posto di primissimo piano nella cinematografia mondiale, non temendo il confronto con colleghi fin qui più blasonati. Ancora una volta la direzione Barbera della Mostra di Venezia si dimostra straordinariamente moderna e lungimirante, ben lontana dalla retorica polverosa di altre realtà festivaliere ben più conservatrici, e ci ricorda come i tempi siano maturi per l’abbattimento delle barriere tra autorialità, grande pubblico, cinema e televisione. Non resta che sperare che la giuria presieduta da Sam Mendes riconosca la grandezza del regista canadese. Nel frattempo già iniziamo il conto alla rovescia per il sequel di Blade Runner a lui affidato, improvvisamente liberati da tutti i timori sul progetto.