Jackie era sicuramente uno dei titoli in concorso più attesi di questa 73° Mostra del Cinema di Venezia: l’esordio americano di un grande regista come Pablo Larraìn, un personaggio complesso e carismatico come Jacqueline Kennedy al centro della scena e una diva come Natalie Portman nel ruolo di protagonista, gli ingredienti per un grande film e un possibile Leone d’Oro c’erano tutti. Risultato? Un hype che durante la visione si è sgonfiato man mano, ma andiamo con ordine.
Come si può facilmente intuire, il film è un one woman show.
Il lungometraggio racconta un arco temporale di 4 giorni che parte dall’omicidio Kennedy fino ai primi, tragici momenti che seguirono l’evento; in questo lasso di tempo, vediamo in maniera accurata tutto ciò che Jacqueline Kennedy ha dovuto passare: la fase di transizione con l’amministrazione Johnson, il rapporto con i media e con Bob Kennedy fino ai preparativi del funerale del marito.
Jackie non ha la classica impostazione del biopic e questo è un punto di forza della pellicola.
Larraìn non gira il film come se fosse un The Imitation Game o una Teoria del Tutto qualsiasi ma decide di utilizzare uno stile che mette bene in evidenza la psicologia del personaggio di Jackie in quei giorni: l’uso di moltissimi primi piani (un pò alla Kechiche in La vita di Adele, per intenderci) e degli interni (con poca profondità di campo), con una colonna sonora opprimente, sottolineano un ambiente plumbeo e il grande disagio della donna, che in un solo attimo ha perso tutto. Ma è vera sofferenza questa o si tratta solo di una parte che sta recitando? Qui il regista cileno rappresenta un character ambiguo ed enigmatico: sappiamo tutti quanto Jackie ci tenesse a farsi sì che sua immagine pubblica fosse perfetta e nel corso del lungometraggio, tra programmi televisivi dedicati all’arredamento della Casa Bianca, interviste autocensurate e funerali sontuosi, emerge la sua ossessione nel non far trasparire nulla di ciò che pensa veramente e di dare al popolo (concetto più vicino ad un regime monarchico che repubblicano) “le favole” di cui ha bisogno (e su questo ha avuto ragione, visto che è diventata un’icona immortale).
Considerando ciò, Jackie è senza dubbio il film più debole di Larraìn.
La sensazione che emerge alla fine della visione è che Larraìn, per entrare nel magico mondo di Hollywood, abbia dovuto fare dei compromessi importanti: il regista infatti non ha avuto voce in capitolo sulla sceneggiatura, che è opera di Noah Oppenheim (autore di film dimenticabilissimi come The Maze Runner e The Divergent Series) ed è il vero punto debole di Jackie perchè è claudicante e non approfondisce come dovrebbe alcuni punti molto controversi. Sarebbe stato molto interessante scoprire cosa Jackie pensasse veramente del marito e di un presidente molto discusso come Lyndon Johnson, ma la scrittura non sfiora minimamente questi spinosi argomenti puntando su lidi molto più convenzionali ed innocui (e scrivere ciò in relazione ad un film di Larraìn, autore che spesso e volentieri ha criticato autorità e regimi, è un po’ strano). Ma alla fine questo film è stato costruito per Hollywood e per Natalie Portman che, pur essendo brava, offre un’interpretazione a volte fin troppo sopra le righe (che le regalerà una probabile nomination agli Oscar e la mette in pole position per la Coppa Volpi).
Intendiamoci, Jackie non è un brutto film (ed è molto probabile che possa anche vincere il Leone d’Oro) ma da Larraìn ci si aspettava molto di più e questo fa della pellicola un’enorme occasione persa.