Parlare di Manhattan per chi ama il Cinema di Woody Allen è come chiedere ad un sacerdote di parlare dell’Ultima Cena. È la sintesi di tutto. Per questo non può che fare piacere rivederlo in versione restaurata nella sezione Venezia Classici della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Il film esce nelle sale a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 e fa incetta di riconoscimenti, non solo negli USA ma anche oltre confine, confermando l’autore e regista newyorkese icona di un genere ancora oggi unico, capace di vantare innumerevoli (e vani) tentativi di imitazione.
La storia, girata interamente con un bianco e nero che di per sé è già sintesi perfetta della malinconia felliniana di Allen, è una piacevole e sorprendente messa in opera di sentimenti, contraddizioni, aspirazioni e ironia. La colonna sonora di George Gershwin non fa che aggiungere magia alle strade della Grande Mela, dando al film pennellate vere di poesia, mai melensa ed intrisa di scorci memorabili.
Dentro ad una cornice perfetta si svolge la storia.
Lo scrittore televisivo Isaac Davis sta attraversando un periodo complicato, sia sentimentalmente sia per la stesura del suo ultimo libro. La sua vita è un continuo intrecciarsi di conflitti, incontri e dialoghi con l’amico Yale, con la sua ex moglie Jill, con la giovane Tracy, con l’affascinante giornalista Mary, interpretata dalla prima icona filmica di Allen, la splendida Diane Keaton. Isaac cerca di mantenere a galla la sua vita sentimentale, dovendo fare i conti con una serie concitata e ben oliata di alti e bassi, di scelte quasi sempre sbagliate, dettate da quei tempi distonici tipici di chi ama arrovellarsi.
Tra le scene memorabili, la sua registrazione in solitaria dei motivi per cui valga la pena vivere; un passaggio, questo, che visto con gli occhi attuali di una società perennemente connessa fa sorridere, sia per quegli eventi immancabili (oggi lontani distanze siderali per un quarantenne-tipo) sia per il modo in cui vengono spiegati e vissuti, dato che l’era dei social fabbrica a ritmo malsano condivisioni spesso inutili e una riflessione personale difficilmente non si traduce anche in un post pronto ad assorbire contrappunti. Invece Isaac ama parlarsi e parlare “fisicamente”, cercando semplicemente un modo per trovare un qualche equilibrio. Il suo destino di eterno scontento troverà compimento, perché gli animi tribolati (figure che hanno caratterizzato l’intera produzione del regista) sono proiettati verso un epilogo senza speranza, tuttavia in grado di divertire in modo sottile, amaro e dolcissimo.
Sulla chimica attoriale di Allen e Keaton si potrebbero scrivere molte cose e molte sono state scritte. Senza dubbio per molti amanti del primo Cinema di Allen, Diane Keaton resta la vera Musa ispiratrice, in grado di sintetizzare binomi sorprendenti come bellezza e (auto)ironia, eleganza e semplicità, femminilità e complessità. A detta dello stesso Allen, è stata lei il suo più grande amore e solo guardando i film che la vedono protagonista al suo fianco si percepisce con quale candore, rispetto e passione Allen la custodisca e faccia risplendere agli occhi degli spettatori.
In Manhattan Woody e Diane sono due persone contrastate e sole, egocentriche e ambiziose, ma mentre Isaac tollera poco la socialità, Mary si bea di conoscenze di spessore, tanto che durante uno dei loro confronti sui rapporti fra affetti e persone (camminando di notte per le strade di New York, ça va sans dire) Allen conia una delle battute più fulminanti di sempre: “(…) ma lo sai che conosci un sacco di geni? Frequenta qualche cretino ogni tanto: potrai imparare qualcosa”.
Quel che ci sentiamo di dire, dato che questa è ormai l’epoca delle celebrazioni ad libitum di Woody Allen, è che questo Cinema avrà fine con il suo tocco. Molte pellicole più recenti del nostro beneamato hanno deluso se non trafitto il cuore di chi ne ha amato gesti e gesta ormai lontane nel tempo, tra aragoste bollite, rapine ridicole, balli in discoteca, parodie di spermatozoi, viaggi nel tempo, dittature risibili, sedute di psicoanalisi e così via. Ciò detto che si renda omaggio al Genio vero di un Artista che con i suoi pregi e difetti (ma non sta a noi qui giudicare l’uomo) ha saputo fare spettacolo nel modo più nobile, divertendo sempre con il fioretto, con una satira priva di volgarità, con uno standard elevatissimo di spunti e innovazione, riuscendo nel difficile compito di far ridere per molti anni una platea che ancora oggi, in quegli occhiali neri di un ottantenne divenuto quasi la caricatura di se stesso, vede il marchio di fabbrica di un genere irreplicabile. Chapeau, Woody.