Andrej Končalovskij, già Leone d’Argento nel 2014 con The Postman’s White Nights, torna in concorso a Venezia nel 2016 con il meraviglioso Paradise (Ray), vincendo il Leone d’Argento per la miglior regia. Il film, girato in bianco e nero e con aspect ratio di 4:3, è ambientato nel 1942 e segue le vicende di tre personaggi in tempo di guerra: l’aristocratica russa Olga (Yulia Vysotskaya), membro attivo della resistenza francese che offre asilo ai bambini ebrei, Jules (Philippe Duquesne), un poliziotto parigino che collabora segretamente con l’invasore nazista, e Helmut (Christian Clauss), un ufficiale tedesco con una carriera in rapida ascesa nelle SS.
PARADISE: UN PUNTO DI VISTA INUSUALE SULL’OLOCAUSTO
Se pensate che non ci sia più nulla da dire sull’Olocausto e sulla II Guerra Mondiale vi sbagliate: Končalovskij riesce nell’impresa impossibile di confezionare un film originale pur affrontando un tema tanto abusato.
Nonostante buona parte della narrazione si svolga in un campo di concentramento, il cineasta russo non è interessato all’ennesima cronaca moraleggiante dei terribili misfatti bellici. Il vero fulcro della pellicola è la complessità della vita e delle relazioni dei tre comprimari, resa con un mirabile uso di un chiaroscuro che non indulge nel pietismo per le vittime e al contempo stupisce in qualche sprazzo di empatia verso gli antagonisti, tanto che i riprovevoli carnefici – nonostante le proprie motivazioni inaccettabili – non sono affatto disumanizzati. E in una pellicola sulla barbarie nazista non è un conseguimento scontato: è sempre bene ricordate come l’inferno possa esser dietro l’angolo.
KONČALOVSKIJ E UN MONTAGGIO CHE FA LA DIFFERENZA
Il vero punto di forza del film però è una struttura narrativa che alterna delle testimonianze in flashforward allo svolgimento principale. Una costruzione geniale che al contempo ci impedisce di rivelarvi dettagli importanti sulla trama del film e sul bilanciamento delle sue componenti.
All’inizio non è chiaro davanti a quale tribunale o polizia si tengano le testimonianze che, accomunando i tre personaggi principali, creano un’inaspettata normalizzazione tra caratteri apparentemente distantissimi. Quel che è certo è che questa soluzione narrativa vagamente debitrice verso Kurosawa permette di scardinare le convenzioni del genere e di presentare gli antagonisti con un perturbante tono autoassolutorio, ricordandoci ovviamente anche il dolore delle vittime.
Forte di questa originale scelta narrativa, la pellicola muove verso un finale che, seppur sorprendente, non risulterà del tutto imprevedibile. Il percorso che ci porterà ad esso, invece, folgorerà lo spettatore per la sua coraggiosa inusualità: partendo dalla malata visione di Helmut del nuovo Reich come un paradiso germanico fino alle pertinenti citazioni dell’inferno di Dante. Quella firmata da Končalovskij è un’opera imperdibile, uno dei migliori film mai girati sulla Shoah.