Il racconto delle periferie è il tema narrativo probabilmente meglio sviluppato dal cinema d’autore italiano, in un’ideale prosecuzione del percorso tracciato da Pier Paolo Pasolini, al quale inevitabilmente chi affronta questo argomento si ispira.
L’Italia è un Paese che non possiede vere e proprie metropoli, né tanto meno megalopoli, per ragioni storiche e geografiche; le stesse aree ai margini delle grandi città sono sorte in maggioranza nel secondo dopoguerra, definendosi come baraccopoli di sfollati ai bombardamenti e contadini inurbati. L’eredità di tipo rurale del sottoproletariato (per usare appunto una categoria pasoliniana) è ancora oggi facilmente ravvisabile nei rapporti sociali e familiari delle periferie italiane, e su tale tessuto si è innestato il disagio tipico di tutte le periferie del mondo, fatto di traffici, “impicci” – come si dice a Roma, città in cui il regista Michele Vannucci ambienta ll più grande sogno – spaccio, povertà ai limiti della miseria vera.
Il più grande sogno è liberamente ispirato alla vita di Mirko Frezza, (nel ruolo di sé stesso) un ex detenuto nato e cresciuto a La Rustica, periferia est di Roma, anzi: periferia della periferia, un luogo spettrale e disperato, filmato in diurna sotto un cielo perennemente plumbeo come se si trattasse di Tirana dopo la caduta di Hoxha e in notturna sempre da molto lontano, restituendo solo un confuso agglomerato di luci nel nulla totale.
Mirko, dopo aver scontato sette anni in carcere, torna nel suo quartiere e l’occasione per riscattare la propria vita agli occhi di sé stesso e della propria famiglia gli si presenta sotto forma di candidatura alla carica di presidente di quartiere.
Mirko è noto, stimato e temuto nel quartiere, e la sua candidatura, presentata dall’amica Paola, viene sostenuta plebiscitariamente.
Sempre affiancato da Boccione, amico-spalla-secondo inseparabile (a Roma i soprannomi sono più importanti dei nomi, e infatti non sapremo mai come il ragazzo si chiami veramente), Mirko intraprende un percorso per la prima volta molto diverso dalla catena di piccoli crimini da poveracci che l’aveva condotto in galera.
La profonda umanità e saldezza di Mirko emergono prepotentemente nei suoi rapporti familiari: l’amore incondizionato e intensissimo per la moglie Milena, una donna saggia, vitale ed equilibrata, per le figlie Michelle e Crystel (ambiziosi nomi televisivi da borgata che a Roma si storpiano facilmente in “Miscè” e “Cryste”) e per il piccolo ancora non nato.
Mirko ha un senso ancestrale della famiglia, senza sovrastrutture né orpelli. L’amore assoluto che nutre per le sue donne gli permette di rinsaldare il legame con le figlie, anche se sette anni di galera pesano: mentre Crystel, bambina, instaura immediatamente il rapporto con il padre che non vede da quando è nata, Michelle è molto più problematica. Il percorso di riscatto di Mirko passa anche attraverso questo doloroso recupero del rapporto con la figlia maggiore, costellato di asperità che sembrano non finire mai.
Mirko stesso è un figlio difficile di un padre inaffidabile, egli stesso piccolo pregiudicato che pippa medicine come fossero coca e continua imperterrito nei suoi impicci: “a Mi’, c’ho er capitale”, sussurra al figlio prima di cacciarsi di nuovo in un guaio dalle conseguenze molto serie.
La carica di presidente del quartiere mette Mirko di fronte alla realtà della borgata e alle dinamiche di chi possiede un minimo di potere politico e lo esercita svogliatamente e goffamente e di chi sguazza dentro la povertà e il bisogno: l’Assessore, grigio e ottuso burocrate e Kekko, piccolo delinquente strozzino.
Per la prima volta, Mirko si confronta con chi vive di pacchi alimentari e con la durissima impresa di togliere uomini e pischelli (ragazzi) dalle piazze di spaccio e impegnarli nella costruzione di un centro comunitario per la borgata.
La sottotrama de Il più grande sogno riguarda il potente legame tra Mirko e Boccione, le cui aspirazioni vanno ben al di là del solito percorso delinquenziale, dal quale si tiene disperatamente lontano investendo i progetti che riguardano la riqualificazione del quartiere di una speranza e di un entusiasmo quasi infantili, che gli impediscono di vedere la desolazione che lo circonda.
La lotta di Mirko e Boccione per tirarsi fuori dalla bruttezza che avvolge le loro esistenze a volte è eroica, a volte è solo un annaspare, ma è sempre pervasa da una dignità e da un’autenticità assolute e brutali.
Il regista Michele Vannucci sceglie di ridurre all’osso l’aspetto estetico del film dandogli un aspetto molto contemporaneo, riuscendo ad equilibrare eleganza visiva e sobrietà documentaria.
Gli attori sono sempre ripresi da distanze molto ravvicinate, a sottolinearne la fisicità; i luoghi sono resi senza pietà in tutta la loro desolazione e la periferia in cui i personaggi vivono è un susseguirsi di corridoi bui, fili elettrici pendenti, palazzi scrostati, “monnezza”. Questo non-luogo è fotografato come se fosse completamente staccato dalla città, come se si trattasse di un posto a sé, dal quale non si fugge.
I legami d’amore e d’amicizia sono raccontati in modo talmente autentico da far stare quasi male per il grado di immedesimazione che suggeriscono, grazie ad una scrittura fedele alla vita vera e ad interpretazioni di grande intensità: su tutti, Mirko Frezza ma anche Alessandro Borghi (Boccione) ulteriormente cresciuto dopo la prova in Non essere cattivo di Caligari e Milena Mancini (Milena), il cui personaggio dolce e fortissimo e il volto à la di Edgar Reitz la rendono un personaggio che si incide nella memoria.
La contemporaneità de Il più grande sogno è ulteriormente sottolineata dall’uso delle musiche, rarefatte e incisive insieme, di Teho Teardo. In questo film, la colonna sonora non è sottofondo ma narrazione vera e propria e rende ancora più emozionante la visione di un’opera davvero convincente fino al finale pieno di speranza e tenerezza, accompagnato da uno struggente brano degli anni Sessanta.
Venezia 73: la recensione de Il Più Grande Sogno
Il film di Michele Vannucci, a Venezia nella sezione Orizzonti, racconta con grande contemporaneità la periferia e il riscatto.