Hanna (Saghar Ghanaat) telefona ai genitori, dice di essere stata rapita e gli chiede di fare del tutto per pagare il riscatto che le permetterebbe di essere liberata. In realtà è fuggita insieme al suo ragazzo Murry (Seed Soheili) perché non ne può più di una famiglia oppressiva e dei comportamenti violenti di un padre padrone che per educarla l’ha cosparsa di benzina e minacciata di darle fuoco. La sezione Orizzonti della 73a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia ci porta in Iran con la proiezione del film Malaria di Parviz Shahbazi, un film in cui il corpo delle donne è lo strumento usato dal regime, che può avere il volto dello Stato, della famiglia o del vicino di casa, per il loro controllo. Se non sono sposate, alle donne è negato perfino accedere a una stanza d’albergo, a meno che non siano accompagnate da una lettera della “polizia morale”. Un ordine sociale che manda a picco, più in generale, intere generazioni di giovani che, ormai forse senza la speranza di un sovvertimento radicale della situazione, hanno rinunciato a scendere in piazza. La ribellione pubblica (e di massa) contro le regole autoritarie ha assunto una dimensione privata, dove ognuno cerca di aggirare e trasgredire quelle regole attraverso comportamenti “fuorilegge” nelle relazioni quotidiane.
Per Hanna e Murry inizia così la fuga che li porterà a girovagare per Teheran inseguiti dal padre e dal fratello di lei, in compagnia di Azi (Azarakhsh Farahani), uno squattrinato musicista di strada, di sua cugina Samira (Azadeh Namdari) e dei loro amici che, come Azi, sopravvivono grazie alla musica e a qualche espediente. La gioventù di Teheran padroneggia tutte le funzioni super tecnologiche delle ultime generazioni di telefonini. Tutti ne hanno uno che maneggiano ininterrottamente, tanto che Shahbazi usa per il suo film una tecnica di ripresa dove lo spettatore non sa esattamente se le immagini che vede provengano dalla macchina da presa del regista, dalle telecamere degli smartphone dei protagonisti o da qualche altro dispositivo tecnologico dei ragazzi. L’effetto è bello, senz’altro interessante, anche perché il cineasta iraniano è molto attento alla cura delle inquadrature. Paradossalmente però proprio la grande diffusione e la padronanza della tecnologia sottolineano ancora di più la condizione asfittica dei giovani iraniani. I supporti informatici e tecnologici infatti a nulla servono per cambiare una società fondamentalmente oscurantista. Come dire, “essere fuori dal tempo… ai tempi di Internet” è il paradosso che ci consegna Malaria. I giovani se ne rendono conto, o forse no perché in fondo le notizie arrivano e la firma dell’accordo sul nucleare con i Paesi membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu li fa perfino scendere in piazza a festeggiare e inneggiare al ministro degli esteri Mohammad Javad Zarif. Ma è emblematico il passo di una canzone scritta da Azi, apparentemente buffa ma spiazzante: “I telefonini hanno il lettore Mp3, i giochi, i video, le foto, tante altre funzioni e una garanzia. Magari avessero anche un braccio, così le mie lacrime non sarebbero più cadute sul cuscino” (interessante la colonna sonora del film, in cui troviamo anche canzoni in voga tra i ragazzi di Teheran).
Lo script di Malaria, a cura dello stesso Parviz Shahbazi, prevede molte scene in automobile, un mezzo che, così come in Taxi Teheran di Jafar Panahi che ne ha fatto la location del film, si conferma il luogo dove gli iraniani decidono, se vogliono, di trovare il loro piccolo spazio di libertà. Shahbazi, come anche Panahi, gioca molto sulla leggerezza, che lascia il pubblico arrivare scorrevolmente fino in fondo alla pellicola. Ma ai titoli di coda ci si rende conto che in effetti c’è poco da ridere.
Venezia 73: la recensione di Malaria
Il film di Parvi Shahbazi presentato nella sezione Orizzonti riflette sul tema della libertà in Iran.