(La Writers Guild Italia nasce con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori. La sezione “Scritto Da”, sotto l’egida di “Written By”, la prestigiosa rivista della WGAw, tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati dagli organi di informazione.)
Antonio Manca ha scritto, insieme al regista Marco Danieli, “La ragazza del mondo”, uno dei due film italiani in concorso nella sezione Giornate degli Autori alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematograficadi Venezia, insignito del premio Lizzani e del premio Brian. Ecco l’intervista che ha rilasciato durante le giornate del festival.
Antonio, una partenza ormai classica: regalaci un PITCH della storia in poche righe e spiegaci anche chi è, questa ragazza del mondo, cosa vuol dire il vostro titolo.
Giulia, giovane testimone di Geova, viene allontanata dalla sua comunità a causa della relazione con Libero, un “ragazzo del mondo” dal passato difficile, ancora legato a un sottobosco criminale da cui invano cerca di riscattarsi. Ma se l’amore per lui mette in crisi i valori spirituali con cui è stata educata, la vita nel “mondo” metterà a dura prova la loro convivenza costringendo Giulia a chiedersi, per la prima volta, cosa vuole davvero dalla vita. Per i testimoni di Geova le “persone del mondo” sono coloro che non “stanno nella verità”, che cioè non riconoscono Geova come loro dio. Il titolo vuole dunque suggerire questo grande cambiamento: Giulia abbandona il recinto rassicurante e protetto della congregazione (e della famiglia) per avventurarsi in un mondo che, finora, ha vissuto sempre e solo di riflesso, come qualcosa da cui tenersi alla larga. E paradossalmente sarà proprio in questo mondo tanto demonizzato che troverà sé stessa.
Abbiamo a che fare con una storia d’amore, dunque. Qual è l’elemento che la distingue dalle tante altre che il cinema ha finora raccontato? Cosa vi premeva raccontare?
A noi premeva raccontare soprattutto la storia di una giovane donna che diventa adulta affrontando una serie di prove di cui la storia d’amore è solo l’innesco. Poi è chiaro che nel film il rapporto tra Giulia e Libero è essenziale, è ciò che ci fa vivere più emozioni e che ci porta a “fare il tifo” per loro come se fossero due novelli Giulietta e Romeo. Il film è però, più che una storia d’amore, un racconto di formazione, il racconto del difficile cammino di questa giovane donna verso la conquista della propria identità.
La religione, con Giulia, entra da protagonista nel racconto: una scelta che viene da vostre esperienze personali o un’inevitabile conseguenza dei nostri tempi?
La religione vissuta in modo totalizzante, ortodosso, senza compromessi di sorta col relativismo culturale che è una cifra dei nostri tempi (quel relativismo tanto avversato da Benedetto XVI…), è una dimensione dell’essere umano che ci affascina molto. Ci affascina forse perché, pur essendo per cultura ed educazione abituati al discorso evangelico, stentiamo a comprenderla fino in fondo: com’è possibile abbandonarsi con fiducia assoluta a un credo, ovvero a un sistema di verità calate dall’alto, indiscutibili, imperscrutabili, e cercare di conformarsi ad esse in ogni istante della propria vita? È questa la condizione di partenza della nostra protagonista, il terreno su cui si innesta il conflitto profondo che dà inizio alla storia del film. Un conflitto originato dallo scontro tra la “verità” che la religione pretende di rivelare e la verità interiore che è qualcosa di più difficilmente conoscibile e che si può cercare di conquistare solo a condizione di sporcarsi le mani, di cadere lungo il cammino, di rinnegare sé stessi per poi ritrovarsi cambiati, cresciuti, adulti.
Avete inserito nel film una riflessione sui drammatici eventi degli ultimi anni, i tanti e diversi attentati compiuti sotto una qualche bandiera religiosa?
No, non era questo il nostro intento. Però credo che nella prima parte, quando Giulia è ancora integrata nel mondo geovista e la vediamo predicare di casa in casa, si capisca come spesso l’offerta religiosa faccia presa soprattutto su individui soli e bisognosi di risposte, di un senso di comunità e di vicinanza che purtroppo nella nostra società è stato disintegrato a beneficio di altro (il consumismo, il denaro). Quello che la religione, non solo quella dei testimoni di Geova, fa intravedere a queste persone è un disegno superiore dietro al caos, dietro alla sofferenza quotidiana, la promessa di un senso all’insensatezza del vivere. Ma l’analogia coi fondamentalismi cui penso tu faccia riferimento finisce qui: se è infatti vero che i kamikaze dell’ISIS sono spesso individui disperati, anch’essi alla ricerca di risposte assolute, è anche vero che spesso vengono radicalizzati rapidamente, con indottrinamenti lampo. Legare la religione al terrorismo jihadista sta diventando sempre più complicato e inappropriato. I TdG invece, oltre a non covare alcun disegno sovversivo, fanno della predicazione e dello studio biblico approfondito il proprio cavallo di battaglia
Tu firmi il soggetto e la sceneggiatura insieme al regista, Marco Danieli. Raccontaci bene a chi è venuta l’idea e com’è nata la collaborazione tra voi.
L’idea trae spunto dai racconti di un’amica di Marco, un’ex testimone di Geova che ha vissuto un’esperienza molto vicina a quella raccontata nel film. Siamo partiti da questa testimonianza, che ci ha colpiti moltissimo e ci ha aperto – è proprio il caso di dirlo – un “mondo” sconosciuto e particolarissimo. Da lì abbiamo lasciato viaggiare la nostra fantasia e siamo approdati con una certa rapidità alla prima scaletta, saltando di fatto la fase del soggetto. Ci sentivamo sicuri della storia e volevamo lavorare subito alla sceneggiatura. Eravamo impazienti di scrivere, volevamo mettere in fretta le scene che avevamo in mente nero su bianco. Mi rendo conto che scrivere direttamente la sceneggiatura non è una prassi ortodossa e non credo che in futuro adotterò ancora questo metodo, anche perché si rischia di lavorare tantissimo senza la certezza di essere remunerati. In questo caso ci è andata bene, eravamo carichi di entusiasmo e scalpitanti (credo che in questo abbia contato molto anche il lungo rapporto di collaborazione con Marco Danieli, che è nato nel lontano 2004 sui banchi del Centro Sperimentale ed è andato avanti negli anni) ma non è una pratica che consiglierei a tutti. Per quanto riguarda la scrittura, una volta messa a punto la scaletta (cosa che facciamo sempre assieme e che nel corso dei tre anni e mezzo trascorsi dalla prima stesura alle riprese ci è capitato di fare molte volte) ci dividiamo le scene da scrivere in blocchi. Ognuno scrive per conto proprio, anche se ci consultiamo spesso durante il lavoro; quando poi la stesura è ultimata ci incontriamo e procediamo ad una verifica. Abbiamo fatto leggere la prima stesura a colleghi di fiducia ed ex insegnanti, preso nota delle molte osservazioni e in seguito riscritto. In questa fase è stata anche importante la consulenza avuta da Emidio Picariello, ex testimone di Geova autore di un interessantissimo libro autobiografico, e il lavoro di ricerca fatto da me e da Marco per approfondire la realtà che volevamo raccontare. La terza stesura è quella che abbiamo mandato alle case di produzione. Da allora le riscritture sono state tante e nell’ultimo anno e mezzo ci siamo avvalsi anche dei preziosi consigli di Stefano Rulli che, in qualità di presidente del CSC, ha seguito attentamente il nostro progetto.
Vi siete ispirati o avevate in mente dei modelli di riferimento, mentre scrivevate?
Non abbiamo guardato a un modello in particolare, anche se nel corso della scrittura ne citavamo tanti. In un primo tempo avevamo in mente, per quanto riguarda il tono del film, un riferimento letterario e cioè “L’insegnante di astinenza sessuale” di Tom Perrotta, che racconta le vicende di alcuni personaggi in una cittadina statunitense in cui una comunità cattolica ortodossa sta prendendo piede. È un romanzo bellissimo che mette a confronto la mentalità laica con quella cattolica oltranzista, ma lo fa senza perdere di vista l’umanità dei personaggi e senza creare delle macchiette, rischio che trattando questi temi è sempre dietro l’angolo. Inoltre nella scrittura di Perrotta c’è molta ironia e noi volevamo riprodurla nel nostro film. Credo che nelle prime stesure, che risalgono al 2012, il registro fosse più leggero, anche se l’impianto drammaturgico nei suoi pilastri è rimasto sempre lo stesso. Man mano che scrivevamo il tono si è fatto più drammatico e secondo me più maturo. C’è da dire – senza anticipare nulla – che nella seconda metà della storia le vicende dei due protagonisti, Giulia e Libero, prendono una piega noir. È sempre stato così nelle nostre intenzioni e questo approdo probabilmente richiedeva una minore indecisione su quello che doveva essere il tono del racconto; voglio dire che quando abbiamo sfrondato il copione da certe sfumature da commedia, il film ne ha guadagnato. E non perché una commedia non fosse possibile o non fosse nelle nostre corde: semplicemente la storia ci ha portato su un’altra strada. Forse più dalle parti di un Audiard, per il suo modo di raccontare l’incontro tra personaggi soli e “storti” –penso a “Sulle mie labbra” o “Tutti i battiti del mio cuore” –, ma con un portato mélo più spiccato.
…e il pubblico, lo avevate in mente? Cioè, avete pensato a chi rivolgervi, avete cercato di andare incontro a un certo tipo di spettatore oppure avete preferito concentrarvi sul vostro prodotto senza condizionamenti di mercato?
Non abbiamo pensato ad un pubblico in particolare, ma sicuramente abbiamo pensato al pubblico. Voglio dire che questa è una storia molto incalzante, con tanti sentimenti in gioco, tante emozioni che si accavallano e scene dense di conflitto. Non lo si può definire un film sospeso, rarefatto. Al contrario, è una storia che doveva essere trascinante, che doveva portare lo spettatore a chiedersi: “E adesso che succede?”, “Come andrà a finire?”. Spero che abbiamo centrato l’obiettivo
Il regista ha scritto insieme a te, dicevamo. E tu, alla messa in scena, hai collaborato? Mi chiedo cioè se hai partecipato al casting o alla scelta delle location, se eri presente sul set, se ti sei confrontato con gli attori…
Ho partecipato a tutte le fasi della realizzazione del film, se si esclude il montaggio (durante il quale sono stato comunque consultato, essendo messo al corrente delle diverse stesure) e la post-produzione. Marco mi ha sempre coinvolto nella ricerca degli attori, tenuto al corrente dei sopralluoghi e delle problematiche che la scelta di una location poteva presentare, anche in termini drammaturgici, e dell’andamento dei provini. Tre anni fa avevo partecipato attivamente alla realizzazione di un promo, che ci ha aiutato nel dialogo con attori, agenti, produttori, e grazie al quale abbiamo conosciuto Sara Serraiocco, che è stata confermata come protagonista del film. Da allora tutte le riscritture del copione le abbiamo fatte avendo in mente lei nella parte di Giulia. Sono stato presente alle prove tra Sara e Michele Riondino, che sono state molto utili per mettere a punto le scene più importanti, e ho assistito a buona parte delle riprese, cercando di alternare questa presenza ad altri lavori che portavo avanti nel frattempo. Anche se a volte mi sentivo come Nicholas Cage nel “Ladro di orchidee”, ovvero il classico sceneggiatore che sul set non sa dove collocarsi e viene sistematicamente scansato da operatori e attrezzisti, devo dire che assistere alla realizzazione di ciò per cui ho tanto faticato mi ha dato molta soddisfazione!
Quanto è cambiato il copione, sul set, rispetto allo script originale? Per quali ragioni? Tu hai partecipato alle modifiche?
Sul set il copione non è cambiato. Ogni scena è stata girata esattamente come l’avevamo scritta, anche se a ridosso delle riprese qualche modifica l’abbiamo effettuata (soprattutto, come ho detto prima, in seguito alle prove con gli attori). In fase di montaggio ci sono stati cambiamenti più importanti, dovuti soprattutto all’eccessiva lunghezza della prima parte, per cui sono state tolte due scene (che portavano avanti il sub-plot riguardante Raffaele, il “bel ami” ossia il competitor principale di Libero nella storia d’amore con Giulia) e fatto tagli interni ad altre. In alcuni casi i montatori Alessio Franco e Davide Vizzini hanno operato – credo felicemente – scelte più creative nei passaggi da una scena all’altra, ma nel complesso il film che vedrete segue fedelmente la sceneggiatura.
Crediamo che la figura dello showrunner possa essere determinante per il successo di una serie Tv. Per quanto riguarda il cinema, credi che sia ugualmente importante che lo sceneggiatore sia coinvolto nella messa in scena, perché un film riesca bene?
È difficile rispondere a questa domanda. Mentre nella lunga serialità i registi si avvicendano e dunque gli sceneggiatori, soprattutto i creatori della serie, hanno il compito di tenere la barra del timone dritta (vale a dire tutelare l’identità del prodotto rispetto al progetto iniziale, al concept), nel caso del cinema, soprattutto quando regista e sceneggiatore sono co-autori della sceneggiatura, per lo più questa responsabilità ricade sulle spalle stesse del regista. Lo trovo giusto e naturale, ma penso anche che sia “innaturale” mettere da parte lo sceneggiatore una volta chiuso lo script. Questo purtroppo a volte succede. Credo che la formula più sensata sarebbe quella di coinvolgere gli sceneggiatori nelle decisioni artistiche durante la preparazione del film (sopralluoghi, casting, eccetera), e su questo andrebbero sensibilizzati per primi i produttori che a volte – per fortuna non sempre – tendono a interfacciarsi solo col regista.
Il film è una coproduzione Italia/Francia con a capo della filiera il Centro Sperimentale di Cinematografia: ci racconti un po’ come funziona e cosa vuol dire? In termini di budget e professionalità impiegati, per esempio, di altri soggetti coinvolti nel finanziamento, di diritti… Non hai lavorato gratis come quando si realizza il corto del diploma, vero?
Il CSC Production produce opere prime di ex allievi e cerca di dare la possibilità a molti neodiplomati di prendere parte alla lavorazione del film. In questo caso tutti i reparti, dalla fotografia al costume al montaggio, si sono avvalsi di ex studenti del Centro. Per il resto l’iter è stato quello di una normale casa di produzione: richiesta del fondo MIBACT, tax credit esterno, richiesta di sostegno alla Regione Lazio, eccetera. Io ho firmato un contratto e vengo pagato regolarmente, non avrei accettato altrimenti.
La ragazza del mondo è in concorso al Premio Venezia Opera Prima “Luigi De Laurentiis”. Mi pare che anche per te sia la prima volta, alla Mostra di Venezia. Cosa ti aspetti?
Sono molto curioso (e anche un po’ spaventato!) dall’accoglienza che il pubblico riserverà al film. Non vedo l’ora che le luci si spengano in sala per captare le reazioni degli spettatori, sperando che corrispondano a quelle che io mi auguro il film sappia trasmettere. Per quanto riguarda il premio, incrocio le dita… ma essere a Venezia è già di per sé un grande traguardo di cui vado molto fiero.
Cosa pensi del nostro cinema in questi anni? Puoi darmi anche solo tre aggettivi…
Vario, coraggioso, giovane. E donna.
Tu hai scritto molto anche per la TV (ultima la miniserie Tango per la libertà su RaiUno lo scorso gennaio). Cosa cambia, per uno scrittore? Quali sono le differenze principali tra scrivere per la tv e scrivere per il cinema?
Nel mio caso l’esperienza di scrittura per il cinema è stata molto più libera rispetto a quella televisiva. La storia era nostra, mia e del regista, la responsabilità – artisticamente parlando – pure. Ovviamente abbiamo avuto una dialettica costante con la produttrice Elisabetta Bruscolini, ma c’è stata molta fiducia nei nostri confronti e questo ha fatto sì che, alla fine, io riconosca al cento per cento la mia impronta nel prodotto finale. Non ho la sensazione che qualcuno sia entrato a gamba tesa per imporre una visione estranea alla nostra. Nel caso della scrittura televisiva, nella quale il confronto con la rete è continuo e si cerca di adeguare il prodotto a quelle che sono le vere o presunte inclinazioni del pubblico, il processo di scrittura è più ondivago e suscettibile di cambiamenti, anche importanti, di rotta. Se a questo aggiungiamo che si scrive e riscrive a più mani, è meno scontato sentirsi, alla fine, i principali responsabili dell’esito complessivo. Credo che la figura dello showrunner di cui parlavamo prima potrebbe essere un prezioso passo avanti verso una maggiore centralità della scrittura e chiarezza dell’identità artistica del prodotto tv
Tra pochi mesi dovrebbe essere votata in Parlamento la nuova legge sul cinema, secondo la quale la parte più rilevante dei finanziamenti di sostegno alla produzione – circa l’80% – va ridistribuita tra coloro che hanno incassato di più nel corso dell’anno precedente. Cosa ne pensi?
Penso che lo Stato dovrebbe aiutare a far crescere i giovani autori e che dovrebbe inoltre permettere al cinema più originale ma anche più fragile, produttivamente e sul piano distributivo, di esistere. La funzione del sostegno pubblico al cinema e all’arte in generale (che è sacrosanto e che è sbagliatissimo confondere con l’assistenzialismo di Stato) dovrebbe essere questa: dare linfa a quei film che da soli non ce la farebbero non solo a competere con gli altri, ma nemmeno a vedere la luce. Se trovo giusto finanziare le imprese che si sono dimostrate virtuose, penso sia sbagliato legare questo giudizio agli incassi, mentre sarebbe doveroso basarsi sulla qualità artistica dei progetti realizzati – oltre che, chiaramente, su quelli per i quali si fa domanda.
Un’altra domanda “tecnica” che facciamo a tutti i nostri intervistati. Lo Stato italiano, pur accogliendo la normativa europea che permette agli autori di scegliere una collecting di loro gradimento, ha deciso di non modificare per adesso la condizione di monopolio della SIAE. Potrebbe però esserci una riforma interna della Siae stessa… In vista di questa, tu che tipo di gestione vorresti per i tuoi diritti d’autore? In altre parole, c’è qualcosa che cambieresti della gestione attuale?
Sinceramente non ho approfondito abbastanza la questione per poterti dare una risposta minimamente sensata. Mi preparo meglio per la prossima volta!
(intervista a cura di Fabrizia Midulla)