(La Writers Guild Italia nasce con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori. La sezione “Scritto Da”, sotto l’egida di “Written By”, la prestigiosa rivista della WGAw, tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati dagli organi di informazione.)
Federica Di Giacomo, regista e autrice del documentario Liberami, ha portato alto il nome dell’Italia conseguendo il premio per il miglior film nella sezione Orizzonti della 73a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Un documentario di creazione che racconta la realtà quotidiana dell’esorcismo nella società contemporanea.
Ciao Federica, grazie per questa intervista. Come prima cosa potresti fare un pitch di Liberami?
Dunque, è un film corale sulla pratica esorcistica nel mondo contemporaneo. Nel film si esplora il riemergere di questa pratica come possibilità terapeutica. Il film è girato in parte in Sicilia in parte a Roma e segue diversi personaggi: due sacerdoti e quattro persone disturbate.
Come mai hai voluto raccontare questo argomento?
Io stavo cercando storie sul disagio psichico in tempi di crisi economica. In particolare ero interessata al tema dell’ossessione in rapporto al contesto della crisi economica: quando è che qualcosa diventa ossessivo? Mi sono imbattuta nella notizia di un corso di formazione a Roma per preti esorcisti e mi è sembrato interessante il contrasto tra un corso di formazione diciamo contemporaneo e una pratica antica come l’esorcismo, che per me era legato al medioevo. Ho capito che c’era qualcosa che bolliva in pentola e ho iniziato a fare ricerca; all’inizio devo dire che ero un po’ scettica come tutti, immagino, di primo acchito, poi non sono neanche un’amante del genere horror e la rappresentazione classica dell’esorcismo al cinema anzi mi intimoriva. In realtà facendo le ricerche mi sono resa conto che è un fenomeno in crescita e assolutamente presente nella realtà quotidiana. L’offerta che c’è di esorcisti non è altro che la risposta a una grossa domanda di persone che attribuiscono l’origine del loro disagio alla presenza del demonio.
Immagino che la fase di ricerca sia stata complicata, visto che non è un mondo facile, come ci sei entrata in contatto?
Ho iniziato a cercare persone, prima di tutto preti che mi volessero raccontare questo mondo. Sono partita dalla Sicilia perché io vivo lì e quindi era un territorio che conosco e che mi riguardava personalmente. Ho incontrato questi preti esorcisti che mi hanno raccontato e spiegato come funzionavano le cose, cosa le persone chiedevano, come la loro vita era cambiata da quando erano stati nominati esorcisti dal vescovo. Perché negli ultimi tempi la Chiesa per rispondere a questa domanda in crescita ha iniziato a nominare un esorcista per ogni diocesi. Il primo elemento che è venuto fuori è stato quello di come cambiava la vita di un prete nel momento in cui diventava esorcista. L’esorcista è una nuova figura di guaritore moderno, al quale si chiede una vera e propria terapia. Quindi la vita di una sacerdote che da parroco gestisce l’attività normale, si trasforma in una vita di trincea, in costante confronto con la sofferenza della gente; ci sono proprio masse di persone che chiedono aiuto.
Questa idea della psicoterapia sembrerebbe molto lontana dall’esorcismo. Quanto è diversa la pratica reale rispetto all’immaginario horror dell’esorcismo al cinema?
Totalmente. Questo è stato anche l’interesse principale: vedere qualcosa che è stato monopolizzato da un lato dall’immaginario horror e dall’altro da uno scetticismo che derideva l’argomento. C’è stata una reinvenzione dello sguardo: raccontare con un documentario l’esorcismo era una sfida della rappresentazione. Il rischio della deriva horror è di dare una rappresentazione schiacciata sulla sofferenza in modo retorico; inoltre il non credere a quello che ci si trova davanti darebbe una rappresentazione ridicola e anche derisoria, che avrebbe reso impossibile il racconto. Per me si può raccontare solo se non c’è giudizio e ci si apre al punto di vista di chi vuoi raccontare. Se ci fosse stato giudizio sarebbe venuto fuori un documentario di denuncia, contro la Chiesa, che non era assolutamente quello che mi interessava.
Produttivamente come si è sviluppato il film?
Il lavoro è durato più di 3 anni e inizialmente me lo sono autoprodotto. Ho iniziato a entrare in contatto con queste persone e ho fatto un lungo lavoro di avvicinamento e frequentazione di queste messe particolari. Poi quando mi hanno dato il permesso per riprendere ho deciso di autofinanziarmi, per assecondare il momento e avere più controllo. Dopo circa un anno e mezzo in cui avevamo già un po’ di materiali girati e avevamo scritto molto, abbiamo vinto il Solinas per il documentario poi è entrato un co-produttore francese e abbiamo ottenuto dei finanziamenti istituzionali dalla Regione Sicilia, che ci sono serviti per finire il film. Per quel che riguarda la pratica di lavoro appunto: prima c’è stata questa lunga fase di osservazione e avvicinamento senza videocamera, durante la quale ho seguito queste messe di liberazione, come vengono chiamate, che sono diverse dalle messe normali: durano più di tre ore e c’è un’evocazione particolare per la liberazione dal maligno, poi ogni prete rielabora la liturgia, ma fondamentalmente il fedele chiede proprio una trasformazione durante la messa, con un profondo coinvolgimento emotivo che dia inizio al processo di liberazione. Io ho assistito a molte messe di liberazione, sono stata in diverse città in Sicilia: a Catania, Messina, Alcamo, Palermo… ne ho incontrati molti e abbiamo parlato con tutti loro. Non è stato facile trovare chi ci desse il permesso di riprendere, poi dopo mesi di frequentazione ho trovato i personaggi.
Parallelamente a questa fase di ricerca e avvicinamento si è sviluppata la scrittura. Insieme al mio co-autore Andrea Sanguigni, abbiamo sempre scritto molto: è stato un lungo processo capire cosa ci interessava raccontare, come farlo. C’era un flusso continuo di domande, il film cresce e si nutre di domande. È stato un vero processo di scoperta per noi, ma anche per le persone con cui venivamo in contatto, che erano persone in grande sofferenza e anche loro sommerse da domande: cercavano di capire cosa avessero, cos’era l’esorcismo, se veramente c’era una presenza maligna dentro di loro, se sarebbero guariti, se si sarebbero liberati, se avevano scelto l’esorcista giusto, perché in alcuni casi, come con gli analisti, si cambia anche l’esorcista.
Nella pratica la scrittura come ha funzionato?
Via via siamo arrivati a scrivere il possibile trattamento del film. Il processo di scrittura ci ha aiutato molto a chiarirci le idee e capire dove stavamo andando, ma è stato sempre un processo aperto e questa è una cosa che mi piace. I miei film non hanno interviste, perché trovo che sia uno strumento che fa emergere un lato troppo razionale del racconto. A me piace riprendere i personaggi nelle loro azioni, perché trovo che l’azione dica molto di più di un’intervista, in cui c’è sempre una rielaborazione dell’esperienza e quindi ci sono più filtri. Anche quando le interviste hanno una temperatura emotiva alta c’è sempre l’intervento della razionalità, mentre nel fare le cose uno va molto più in automatismo, la razionalità abbassa la guardia e quindi si racconta molto di più. Almeno questo è il mio stile: è un film che non da spiegazioni o interpretazioni razionali, ma crea una stratificazione di interpretazioni e sensi diversi, in cui ognuno poi può vedere quello che vuole, quello che più lo colpisce o che gli è più vicino. Spero che sia un film in cui c’è la possibilità di trovare qualcosa che è vicino a ognuno di noi.
Hai detto che è un film corale, come hai scelto i personaggi da raccontare?
La scelta dei sacerdoti è venuta molto naturalmente. Padre Carmine è stato il primo prete che ho incontrato, che mi ha spiegato cosa succedeva, come loro si rapportavano ai sofferenti e come era cambiata la sua vita e mi ha parlato anche di quelli che secondo loro sono i nemici della Chiesa, di quelle che sono le porte verso Satana e lui è diventato subito un protagonista. Successivamente sono arrivata nella chiesa di Padre Cataldo a Palermo, dove tutti i giorni a tutte le ore c’è un affollamento di fedeli che chiedevano di essere esorcizzati. Padre Cataldo ha un carattere estremamente misericordioso, è paziente, riesce ad accogliere chiunque, sempre, anche persone con disagi molto diversi e allo stesso tempo è molto schietto: quando si trova casi di persone le cui sofferenze non crede siano legate a fenomeni satanici, lo dice subito. Questo ne fa un personaggio complesso, che crea dialettica, un personaggio che ha già in se la capacità di portare un conflitto, io cerco sempre personaggi che abbiano una tensione di dubbio e che creino dialettica, perché questo avvicina i personaggi agli spettatori. I dubbi dei personaggi rappresentano i dubbi che può avere uno spettatore e quindi avvicinano al racconto, non c’è mai un’unica verità, non c’è una sola dimensione del personaggio, uno non è solo buono. Un grande documentarista diceva “Fai i film su chi ami e chi odi”, perché questo ti permette di vedere tutti i lati di un personaggio e di creare più complessità e profondità nel racconto. Dalla parte dei sofferenti i personaggi li ho scelti proprio sul fatto di essere vicini anche a chi non è strettamente cattolico, volevo persone il più normali possibile. Perché questa è la realtà dell’esorcismo: rappresenta una possibilità terapeutica per tante persone con diversi tipi di disagio assolutamente contemporanei. Lo stereotipo dell’esorcista, così come quello del posseduto, non rappresentano più la complessità di chi cerca e di chi attua questa pratica. Si può passare da un malessere molto lieve a un malessere gravissimo, ma sono malesseri difficili da interpretare, che potrebbero riguardare chiunque. Scegliere persone normali mi aiutava a inquadrare l’esorcismo come un generatore di metafore sulla questione della malattia psichica. Perché la possessione o la liberazione non sono degli stati fissi, si entra e si esce, c’è un ritmo quotidiano della possessione e così anche la liberazione non è una cosa definitiva, perché affermare che uno si è liberato dal male per sempre è una cosa abbastanza insensata.
Puoi spiegarci meglio a cosa ti riferivi quando parlavi delle porte verso Satana e dei nemici della Chiesa?
Secondo i sacerdoti il ricorso all’esorcismo va di pari passo con un’infatuazione sempre maggiore per tutto ciò che è satanico, soprattutto per i giovani. Il fenomeno più preoccupante è quello del ricorso ai maghi. Il pericolo per i preti sta nella volontà dell’uomo di controllare e dominare non solo il suo destino, ma anche quello dei suoi cari o dei suoi nemici, per cui si ricorre alla magia e alle fatture. E questo ricorso ai maghi è sempre più diffuso, se si va a vedere chi si rivolge alla magia nera o bianca, si nota che è un fenomeno in crescita vertiginosa. Siccome per la Chiesa l’unico intermediario tra l’individuo e l’Assoluto è il prete, qualunque altro intermediario è un pericolo che può aprire la porta a malesseri satanici.
Parlando in termini di struttura del racconto, come hai organizzato il materiale?
La struttura del film in un documentario è una questione delicata, nel senso che la struttura si costruisce man mano e il montaggio è un passaggio fondamentale. Insieme al montatore Edoardo Morabito abbiamo scelto di privilegiare la Sicilia, c’è una parte a Roma, ma il grosso della storia è in Sicilia. Su questo c’è stata proprio la volontà di fare un film incentrato sulla pratica quotidiana dell’esorcismo. Quindi allontanarsi dalla Sicilia e seguire personaggi al di fuori, avrebbe sfilacciato il racconto, rendendo il film più simile a un reportage piuttosto che a un documentario di creazione come volevo io. Quindi abbiamo deciso di puntare su un’unità di luogo, che è la chiesa di Padre Cataldo, e un’unità di tempo anche un po’ metaforica: il film è come se si svolgesse in un’unica giornata interminabile. L’idea era quella di raccontare la pratica esorcistica come un appuntamento fisso di terapia, come da un medico o uno psicologo. Il fatto è che uno arriva, entra, diciamo, in seduta e poi ne riesce e torna a casa e questo si ripete continuamente, così come loro entrano ed escono dalla possessione. Molto spesso loro vengono, partecipano alla messa di liberazione e poi tornano a casa come se nulla fosse, in alcuni casi senza neanche dirlo alla propria famiglia. Quindi quest’idea ci ha guidati nella rappresentazione, anche se questo ci esponeva al rischio di far pensare che il fenomeno fosse limitato alla Sicilia, quindi poi abbiamo inserito una parte a Roma dove si vede questo corso per esorcisti, frequentato da preti di tutto il mondo e ci si rende conto che quello che si è visto non è un fenomeno circoscritto, ma anzi è un preludio alla diffusione degli esorcisti ovunque nel mondo. L’idea di struttura comunque era di seguire il ritmo del quotidiano in un racconto corale con due preti, quindi due chiese e quattro persone sofferenti, una delle quali ci traghetta da una chiesa all’altra, perché consulta diversi esorcisti, è stato un espediente per collegare le due parrocchie. Per me era importante che il racconto fosse corale, perché è un fenomeno che, sia dal punto di vista degli esorcisti che dei sofferenti, è in grande crescita e riguarda sempre più persone, anche molto diverse per età, sesso ed estrazione sociale.
Questa struttura ti ha portato a fare scelte di tagli particolari al montaggio? Come è stato il lavoro di selezione del materiale in rapporto alla narrazione?
Questa struttura deriva anche dal fatto che noi abbiamo proprio seguito il quotidiano di questi personaggi, quindi il nostro ritmo di partecipazione era cadenzato così. Poi in montaggio c’è stato anche un lavoro per cercare la giusta distanza, come in parte avevo già fatto in fase di ripresa; bisognava equilibrare gli elementi del racconto in modo da far venire fuori tutti quei lati che di solito nello stereotipo del genere horror non ci sono. Quindi i dubbi, gli sbagli di interpretazione, anche l’ironia e l’auto-ironia che emergeva dai personaggi, perché nel momento in cui c’è ironia non c’è più dogma e questo rende interessante il racconto cinematografico. Il montaggio è stato un lavoro intenso proprio per trovare l’equilibrio tra queste componenti: trovare i momenti in cui l’ironia sorge spontanea, da loro ed è un’ironia umana non derisoria, e anche il rispetto della sofferenza e la capacità di raccontarla senza essere schiacciati su qualcosa di retorico o addirittura pornografico, perché riprendere la sofferenza non è facile. Noi abbiamo scelto di mostrare l’esorcismo, con tutti i rischi, perché altrimenti sarebbe stato impossibile capire come l’esorcismo era vissuto nel quotidiano senza far sentire la forza e l’adrenalina particolare di quel momento.
Siamo davvero curiosi di vedere il film, uscirà nelle sale?
Sì, uscirà con I Wonder, ma non so ancora quando.
Ti faccio l’ultima domanda rituale sul nuovo progetto di legge per il cinema. Tra pochi mesi dovrebbe essere votata in Parlamento la nuova legge cinema, secondo la quale la parte più rilevante dei finanziamenti di sostegno alla produzione – circa l’80% – va ridistribuita tra coloro che hanno incassato di più nel corso dell’anno precedente. Cosa ne pensi?
Mi cogli un po’ alla sprovvista perché non ho letto il progetto di legge. La cosa che trovo più fastidiosa è che c’è la presunzione di fare quello che il pubblico vuole, che è assurda perché il pubblico è costretto da quello che gli viene proposto, molti film in realtà non raggiungono la sala, o comunque la raggiungono in maniera molto limitata, quindi non si sa se al pubblico potrebbero piacere. Sul documentario io direi che come prima cosa in Italia c’è un vuoto formativo.
Questa è un’osservazione che ha fatto anche Irene Dionisio, una documentarista di Torino, che lamentava la mancanza di formazione anche come strumento per creare un pubblico.
Sì, esatto la formazione è la base di tutto, oltre a quello c’è da dire che è molto difficile vedere film documentari di creazione, che non siano schiacciati sul linguaggio televisivo e giornalistico, che è rispettabilissimo, ma è un’altra cosa. Per me l’aspetto interessante è proprio la libertà di linguaggio che il documentario di creazione permette. Quindi non riuscendo a vedere film che hanno un linguaggio, non solo un tema, diverso è chiaro che il gusto del pubblico sia appiattito. C’è un grande lavoro da fare per rendere visibili questi film indipendenti. Questi poi sono film che vivono un paradosso: c’è troppa differenza tra il budget di un documentario che ha tempi di lavorazione molto lunghi per lo sviluppo e la ricerca e un film di finzione. Un film di finzione può avere un budget di 3 milioni di euro e un documentario in Italia difficilmente arriva ad avere un budget superiore a 150mila euro. Quindi penso che ci sia uno squilibrio anche nelle categorie produttive e distributive dei film, quando ormai c’è un grande interesse per il reale. Il gusto è stato monopolizzato, ma quando ha l’opportunità il documentario in sala può fare ottimi risultati a livello di pubblico, ma deve essere valorizzato.
Grazie mille Federica, e allora aspettiamo di andare a vedere Liberami in sala!
Grazie a voi, mi è piaciuto poter parlare di scrittura e struttura, di solito non lo chiede mai nessuno.
(intervista a cura di Fosca Gallesio)